La Legge dello Stato 7 marzo 2001, n. 78 – Tutela del patrimonio storico della Prima guerra mondiale, nello stabilire, sin dall’esordio, che «la Repubblica riconosce il valore storico e culturale delle vestigia della Prima guerra mondiale», ha, per l’appunto, poi chiamato lo Stato e le Regioni a promuovere «la ricognizione, la catalogazione, la manutenzione, il restauro, la gestione e la valorizzazione delle vestigia relative a entrambe le parti in conflitto», ciascuno «nell’ambito delle rispettive competenze».
Nell’individuare, del resto, le «competenze delle regioni», la stessa legge statale
ha specificato, all’art. 7, comma 1, che le Regioni a statuto ordinario potessero, a loro volta – «nelle materie di loro competenza ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione e in quelle loro delegate dalla legislazione vigente» – disciplinare, tra l’altro (lettera c), «con legge l’attività della raccolta di reperti mobili, fermo restando quanto previsto dagli articoli 9 e 10»: fermi restando, cioè, da un lato, gli obblighi di comunicazione da parte di «chiunque possieda o rinvenga reperti mobili o cimeli relativi al fronte terrestre della prima guerra mondiale di notevole valore storico o documentario» ovvero «possieda collezioni o raccolte dei citati reperti o cimeli» e, dall’altro, le sanzioni per «chiunque esegua interventi di modifica, di restauro o di manutenzione» su alcune di queste cose senza rispettare i previsti obblighi di comunicazione.
È dunque pacifico che l’intervento regolativo delle Regioni resti qui espressamente resecato – senza possibilità di indebite estensioni o di improbabili “completamenti” – non solo all’interno del perimetro di una disciplina adottata in relazione alla specifica natura dei beni che ne formano oggetto, ma anche, naturalmente, nei limiti del sistema ordinario del riparto delle competenze legislative in materia di beni culturali.
Sul versante delle competenze, del resto, non appare superfluo sottolineare la
circostanza che il codice dei beni culturali e del paesaggio si “autoqualifichi” (art. 1, comma 1) come normativa di «attuazione dell’articolo 9 della Costituzione», assumendo le connotazioni tipiche del “parametro interposto”, alla stregua del quale misurare la compatibilità costituzionale delle disposizioni con esso eventualmente in contrasto: non diversamente da quanto questa Corte ebbe modo di osservare a proposito della legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), attuativa dell’art. 6 della Costituzione (sentenze n. 170 del 2010 e n. 159 del 2009).
Lo stesso art. 1 del codice, in particolare, nel dettare i princìpi della relativa disciplina, significativamente sancisce – al comma 2 – che «la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura»: implicando, per un verso, il riferimento a un “patrimonio” intrinsecamente comune, non suscettibile di arbitrarie o improponibili frantumazioni ma, nello stesso tempo, naturalmente esposto alla molteplicità e al mutamento e, perciò stesso, affidato, senza specificazioni, alle cure della “Repubblica”; e, per altro verso, una sorta di ideale contiguità, nei limiti consentiti, fra le distinte funzioni di “tutela” e di “valorizzazione” di questo “patrimonio” medesimo, ciascuna identificata nel proprio ambito.
All’interno di questo sistema appare, perciò, indubbio, che se “tutela” e “valorizzazione” esprimono – per dettato costituzionale e per espressa disposizione del codice dei beni culturali (artt. 3 e 6) (secondo anche quanto riconosciuto dalla Corte Cost. sin dalle sentenze n. 26 e n. 9 del 2004) – aree di intervento diversificate, è necessario che restino inequivocabilmente attribuiti allo Stato, ai fini della tutela, la disciplina e l’esercizio unitario delle funzioni destinate alla individuazione dei beni costituenti il patrimonio culturale nonché alla loro protezione e conservazione e, invece, anche alle Regioni, ai fini della valorizzazione, la disciplina e l’esercizio delle funzioni dirette alla migliore conoscenza e utilizzazione e fruizione di quel patrimonio e, perciò – secondo i princìpi di cui agli articoli 111 e seguenti del codice –, la costituzione e l’organizzazione stabile di risorse o la messa a disposizione di competenze.
L’impianto normativo costruito, con tale particolare compattezza, sull’art. 10 del codice, prevede, come è noto, una serie di rigorose e dettagliate misure di tutela: da quelle concernenti i diversi divieti o le autorizzazioni o gli obblighi conservativi dei beni, a quelle relative alla loro circolazione, al regime delle eventuali loro alienazioni o di altre forme di trasmissione in ambito nazionale o anche internazionale o alla uscita dal (o all’ingresso nel) territorio nazionale, alle espropriazioni e, finalmente, per quello che qui più interessa, alle ricerche e ai ritrovamenti.
È opportuno ribadire, infatti, a questo riguardo, che, a norma dell’art. 88 del codice, «le ricerche archeologiche e, in genere, le opere per il ritrovamento delle cose indicate all’articolo 10 in qualunque parte del territorio nazionale sono riservate al Ministero»; il quale può, tuttavia (art. 89), concederne a soggetti pubblici o privati l’esecuzione, fermo per il concessionario l’obbligo di attenersi alle prescrizioni del Ministero medesimo e con la possibilità (comma 6) che questo possa «consentire, a richiesta, che le cose rinvenute rimangano, in tutto o in parte, presso la Regione od altro ente pubblico territoriale per fini espositivi, sempre che l’ente disponga di una sede idonea e possa garantire la conservazione e la custodia delle cose medesime».
Né di minore rilievo appaiono le regole (art. 90) concernenti le scoperte fortuite, che impongono (comma 1) all’occasionale scopritore di «cose immobili o mobili indicate nell’articolo 10» di farne «denuncia entro ventiquattro ore al soprintendente o al sindaco ovvero all’autorità di pubblica sicurezza» e di provvedere «alla conservazione temporanea di esse, lasciandole nelle condizioni e nel luogo in cui sono state rinvenute», con l’ulteriore onere, per il soprintendente, di informare «anche i carabinieri preposti alla tutela del patrimonio culturale»; e con la specificazione (comma 2) che «Ove si tratti di cose mobili delle quali non si possa altrimenti assicurare la custodia, lo scopritore ha facoltà di rimuoverle per meglio garantirne la sicurezza e la conservazione sino alla visita dell’autorità competente e, ove occorra, di chiedere l’ausilio della forza pubblica», fermo – oltre che l’obbligo di conservazione e custodia «per ogni detentore di cose scoperte fortuitamente» (comma 3) – il rimborso delle spese da parte del Ministero.
Appare, dunque, del tutto evidente che eventuali normative regionali non potrebbero intervenire su questi stessi oggetti – tanto più se con discipline modificative di quelle statali – senza eccedere dall’ambito di competenza e senza, perciò, risultare, come nel caso, incompatibili con il sistema costituzionale del relativo riparto, anche al di là della specifica materia dei beni culturali: ove, infatti, in ipotesi, dette normative regionali prevedessero vincoli o privilegi incidenti nella sfera dei diritti e degli interessi dei privati, potrebbero finire per interessare anche altre materie riservate alla competenza dello Stato (come, ad esempio, quelle riconducibili alla materia dell’ “ordinamento civile”), risultando, perciò, costituzionalmente illegittime sotto ulteriori profili.
Corte Costituzionale sentenza n. 194 del 2013