La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la configurazione del reato di atti persecutori o stalking attraverso insulti e minacce che l’imputato aveva inserito nel suo profilo facebook.
Nel caso di specie l’imputato aveva minacciato e molestato le persone offese a mezzo del suo profilo Facebook, cagionando nei medesimi un perdurante stato d’ansia e un fondato timore per l’incolumità propria e dei familiari e costringendoli a mutare le abitudini di vita, e, nel contempo, offendendone la reputazione. Si era ritenuto che le minacce, gravi e ripetute, del prevenuto configurassero il delitto di atti persecutori (avendo cagionato gli eventi previsti da tale norma) e le espressioni offensive, parimenti pubblicate sul profilo del prevenuto concretassero gli elementi del contestato delitto di diffamazione.
Sulla configurabilità di condotte moleste o minacciose veicolate tramite la rete internet la giurisprudenza di questa Corte si è già più volte pronunciata, dovendo tenere adeguato conto delle particolarità del mezzo in generale e delle caratteristiche dei singoli modi di comunicazione che la rete consente (dai siti di vere e proprie testate giornalistiche, dai blog di discussione, ai social-media che consentono dirette interazioni fra singoli utenti).
Si è così affermato che la mera pubblicazione, ancorché reiterata, di articoli giornalistici di contenuto diffamatorio non integra il delitto di atti persecutori (Cass., Sez. 5, n. 48007 del 19/10/2016) e, ponendosi sul medesimo filone interpretativo, si è anche affermato (Cass., Sez. 5, n. 34512 del 03/11/2020) che il ricordato reato non si configura neppure mediante la pubblicazione di “post” (ovvero di singoli messaggi rivolti ad una determinata persona) su una pagina “Facebook“, liberamente accessibile a chiunque, che siano meramente canzonatori ed irridenti, in assenza del requisito della inevitabile invasività della sfera privata della vittima, attuale, invece, solo con altri mezzi (sms, e messaggi whatsapp per citare i più avanzati tecnologica mente).
Costruendo così, almeno apparentemente, un orientamento giurisprudenziale che sembrerebbe negare la stessa possibilità di intimidire con minacce o arrecare molestia a chicchessia tramite internet qualora il mezzo di comunicazione scelto non comporti un’immediata invasione della sfera privata del destinatario (dovendosi pertanto escludere quelle modalità di consultazione dei messaggi altrui che siano attivabili solo ad iniziativa del ricevente: la consultazione di un blog, la visita ad un sito, l’apertura, nei social-media, di “profili” di altri soggetti).
In realtà, in entrambe le pronunce citate (la n. 48007 del 2016 e la più recente n. 34512 del 2020) erano i fatti stessi, oggetto dei giudizi, a non costituire un idoneo presupposto per la configurabilità del delitto di atti persecutori, perché escluse le minacce che non ricorrevano, si era soltanto rilevato come i contenuti pubblicati, pur ipoteticamente diffamatori, non avessero determinato (anche per il mezzo utilizzato) alcuna concreta molestia alle presunte vittime del reato.
Tanto che, nella prima sentenza, la n. 48007 del 2016, non si negava affatto che la violazione dell’art. 612 bis C.p. avrebbe potuto attuarsi con comunicazioni veicolate tramite il social-media Facebook, ma solo nel caso in cui le medesime si fossero iscritte in un più ampio spettro di condotte, tali da configurare appunto un comportamento concretamente molesto.
A fronte di tali arresti giurisprudenziali se ne rinvengono, invece, altri nei quali questa Corte ha positivamente affermato l’avvenuta consumazione del delitto di atti persecutori a mezzo di messaggi e comunicazioni diffusi tramite i social-media.
Si è, infatti, precisato che:
– integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di “sms” e di messaggi di posta elettronica o postati sui cosiddetti “social network” (ad esempio “facebook“), nonché la divulgazione attraverso questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima (Cass., Sez. 6, n. 32404 del 16/07/2010);
– integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori la condotta di chi reiteratamente pubblica sui “social network” foto o messaggi aventi contenuto denigratorio della persona offesa con riferimenti alla sfera della sua libertà sentimentale e sessuale in violazione del suo diritto alla riservatezza (Cass., Sez. 5, n. 26049 del 01/03/2019).
Si è così inteso affermare che non è tanto il mezzo attraverso il quale si diffonde la comunicazione che consente di ritenere il delitto di cui all’art. 612 bis C.p. ma è, piuttosto, il contenuto della stessa che deve costituire un comportamento concretamente vessatorio a danno della persona offesa: e così si era ritenuto nei due citati arresti, in cui l’agente aveva diffuso notizie inerenti ala sfera più intima della personalità della vittima.
Del resto, lo stesso legislatore aveva modificato – con il D.L. n. 14 agosto 2013, n. 93, art. 1, comma 3, lett. a), convertito, con modificazioni, dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119 – l’art. 612 bis C.p., comma 2, introducendovi l’ipotesi di aggravamento della pena quando il fatto sia commesso “attraverso strumenti informatici o telematici“, così, per un verso, chiarendo come il delitto possa consumarsi anche attraverso tali modalità di comunicazione e, per l’altro, affermando che, l’utilizzo delle stesse, doveva considerarsi connotato da un maggior disvalore sociale dell’atto persecutorio.
Si tratta, allora, di formulare il giudizio in fatto, sulla petulanza o, altrimenti, come nel caso di specie, sull’efficacia intimidatoria degli scritti (o delle registrazioni foniche o dei video) “postati” su social-media come Facebook a determinare la configurabilità del delitto di atti persecutori.
Giudizio in cui certo acquisiscono rilievo (seppure, come detto, non di per sé risolutivo) anche i modi propri di questa particolare forma di diffusione dei messaggi.
Così, nel caso del social-media Facebook (ma anche di altri analoghe comunità virtuali), deve tenersi conto del fatto le comunicazioni possono avvenire sia inviandole al “profilo” del destinatario, sia pubblicandole sul proprio “profilo“. E, in questa seconda evenienza, avrà anche rilievo l’accessibilità ai terzi del medesimo.
Risulta, innanzitutto, evidente che, quando il messaggio sia inviato al “profilo” della persona offesa, in nulla tale comunicazione diverge da quelle veicolate con altro mezzo di diffusione (con il telefono o con i sistemi di messaggistica, quali gli sms, o, anche, per restare a quelli che si avvalgono della rete internet, whatsapp e simili, quali telegram, messenger ed altri) poiché, in questo caso, si attua una diretta invasione della sfera privata altrui.
Quando, invece, il messaggio, pur rivolto ad una determinata persona sia pubblicato sul profilo dell’imputato se ne dovrà verificare la conoscibilità, certamente scontata quando il “profilo” sia ampiamente accessibile.
Del resto, anche se le persone offese non fossero venute a personale e diretta conoscenza dei “post” dell’imputato, soccorrerebbe il costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte (da ultimo rappresentato dalla pronuncia Sez. 5, n. 38387 del 01/03/2017) secondo il quale, ai fini della configurabilità del delitto di minaccia, non è necessario che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, potendo quest’ultima venirne a conoscenza anche attraverso altri, in un contesto dal quale possa desumersi la volontà dell’agente di produrre l’effetto intimidatorio.
Un principio di diritto, quello appena ricordato, che deve ritenersi applicabile anche alle minacce che costituiscano l’elemento oggettivo (con uno dei conseguenti necessari eventi descritti dalla norma) del delitto di atti persecutori.
Corte di Cassazione, Sez. V Penale, sentenza 17 maggio 2021, n. 19363