Le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione hanno affermato, così risolvendo un contrasto interpretativo sorto in sede di legittimità, che l’ordinanza di rigetto della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova non è immediatamente impugnabile, ma è appellabile unitamente alla sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 586 C.p.P., in quanto l’art. 464-quater, comma settimo, C.p.P., nel prevedere il ricorso per cassazione, si riferisce unicamente al provvedimento con cui il Giudice, in accoglimento della richiesta dell’imputato, abbia disposto la sospensione del procedimento con la messa alla prova (Sez. U, n. 33216 del 31/3/2016, Rigacci, Rv. 267237).
In particolare, si è sottolineato che nella fase del vaglio dell’ammissibilità alla messa alla prova, il giudice, seppure in base ad un accertamento sommario, anticipa un “criptoprocesso” sul fatto, sull’autore e sulle conseguenze della messa alla prova.
E’ stato osservato in dottrina come l’aver costruito la fase di ammissione alla prova come una sorta di accertamento anticipato sul fatto e sull’autore abbia determinato lo spostamento in sede di cognizione degli aspetti relativi al profilo trattamentale e, in alcuni casi, anche esecutivo, dal momento che è in sede di cognizione che il giudice segue la fase di esecuzione della messa alla prova, fino a dichiarare con sentenza l’estinzione del reato in caso di esito positivo.
L’anticipazione di tali fasi al momento della cognizione costituisce una novità nel sistema processuale, ma allo stesso tempo rende evidente i limiti di un tale “accertamento” sul fatto con finalità specialpreventive e le particolari esigenze difensive dell’imputato rispetto alle scelte che il giudice adotta in questo contesto.
Queste considerazioni dimostrano come, rispetto ad un provvedimento di rigetto della richiesta di messa alla prova, la previsione del ricorso immediato per cassazione, per i motivi di cui all’art. 606, comma 1, C.p.P., finisca per limitare la difesa dell’imputato, non consentendogli di contestare il merito della decisione ogni qual volta si fondi su una valutazione di inidoneità del programma, con riferimento, ad esempio, ai risultati dell’indagine dell’ufficio di esecuzione penale esterna ovvero alle informazioni acquisite d’ufficio o, ancora, ai contenuti e alle prescrizioni dello stesso programma di trattamento proposto.
Invero, in simili casi l’imputato ha interesse a contestare proprio la scelta “negativa” compiuta dal giudice, investendo il merito della decisione.
Il rimedio che consente la possibilità di rimuovere il contenuto decisorio, attraverso una revisio prioris instantiae ovvero un novum iudicium, è l’appello: gravame di tipo devolutivo, atto a provocare un nuovo esame del merito, in relazione al quale è sufficiente che la parte indichi i punti da riesaminare e le ragioni della richiesta.
Le caratteristiche proprie dell’appello, con riferimento all’effetto devolutivo e al potere del giudice del gravame di riesaminare in toto la regiudicanda, seppure entro i limiti dei motivi dedotti, valgono naturalmente anche per le ordinanze emesse nel dibattimento che, ai sensi dell’art. 586 C.p.P.., devono essere impugnate insieme con la sentenza.
In questo modello rientrano le ordinanze dibattimentali con cui il giudice rigetta le richieste di sospensione del procedimento con messa alla prova che, sempre in base a quanto prevede l’art. 586, comma 1, sono impugnabili anche nel caso in cui la sentenza è appellata solo per connessione con l’ordinanza.
La soluzione evita che i diritti dell’imputato siano penalizzati e consente di operare un controllo sull’ordinanza negativa che non sia limitato alle violazioni di legge e ai vizi della motivazione, ma ricomprenda anche la possibilità che siano oggetto di verifica le scelte di merito compiute dal giudice nell’esercizio della sua vasta discrezionalità, che hanno condotto alla decisione negativa di rigettare la richiesta.
Corte di Cassazione Penale Sent. Sez. 3 Num. 50359 Anno 2016