L’ “evoluzione” storica dell’istituto della restituzione nel termine per appellare la sentenza contumaciale ha visto, nel tempo, varie tappe prima di approdare al suo inquadramento sistematico.
A differenza di quello del 1913, che prevedeva la purgazione della contumacia e l’opposizione alla sentenza contumaciale, il codice del 1930 presentava notevoli lacune in relazione al processo contumaciale. Soltanto con la Legge 18 giugno 1955, n. 517, per adeguare l’assetto del Codice di Procedura Penale ai principi della Costituzione, venne inserito l’art. 183-bis, che, pur rappresentando un apprezzabile passo in avanti con riferimento al diritto di difesa, delimitava la restituzione nel termine all’ipotesi in cui il termine stabilito a pena di decadenza non fosse stato osservato per caso fortuito o forza maggiore, ponendo a carico della parte l’onere della prova, con il limite della concedibilità per una sola volta nel corso del procedimento.
Siffatta rigorosa disciplina incontrò ben presto le censure della Corte di Strasburgo perché in contrasto con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, sul rilievo che la presenza dell’imputato nel processo, anche se non espressamente prevista dall’art. 6 CEDU, era il presupposto necessario per l’esercizio dei diritti riconosciuti dall’art. 6, terzo comma, lett. c), d) ed e).
Il legislatore provvide allora a riscrivere, pur senza alterare la struttura dell’istituto, il testo dell’art. 183-bis, introducendo, con la Legge 23 gennaio 1989, n. 22, modifiche, in tema di contumacia e di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello, che si muovevano in linea con i principi ispiratori del nuovo Codice di Procedura Penale.
La riscrittura dell’istituto, con la estensione anche alla mancata conoscenza effettiva del provvedimento da impugnare, rappresentava un indiscutibile avanzamento rispetto alle formulazioni precedenti, ma, nel contempo, rivelava il sospetto in ordine ad un utilizzo indiscriminato e strumentale delle richieste di restituzione nel termine, tanto che veniva posto a carico del richiedente l’onere di dimostrare che la mancata conoscenza non fosse attribuibile a sua colpa.
Tali, pure apprezzabili, “aperture” non risultarono sufficienti e compatibili con le linee ispiratrici dell’art. 6 CEDU. La Corte Europea, censurava, con accenti ultimativi, il sistema di presunzioni del nostro ordinamento in tema di notifiche penali (salvo prova contraria a carico dell’imputato), che prescindeva dall’effettiva conoscenza del procedimento.
Il rimedio previsto dall’art. 175 C.p.P. non offriva idonee garanzie, poiché l’onere a carico dell’imputato di provare di non essersi sottratto volontariamente alla giustizia limitava pesantemente il diritto alla restituzione nel termine.
Sicché, in base all’art. 46 CEDU, l’Italia era obbligata a rimuovere ogni ostacolo idoneo ad impedire al condannato in absentia, non a conoscenza del procedimento e che non avesse rinunciato a comparire, di ottenere un nuovo processo.
Il legislatore, per evitare ulteriori condanne, modificava ancora una volta, con il D.L. 21 febbraio 2005, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla Legge 22 aprile 2005, n. 60, l’art. 175 C.p.P., eliminando ogni onere a carico dell’imputato: era, infatti, il giudice a dover accertare che l’imputato avesse avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e avesse volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione od opposizione.
Le modifiche apportate vennero ritenute, in linea di principio, idonee ad assicurare le garanzie previste dall’art. 6 CEDU.
Infine, il legislatore, con la Legge 28 aprile 2014, n. 67, ha riordinato l’intera materia, prevedendo interventi preventivi del giudice in ordine alla verifica della effettiva conoscenza (art. 420-ter) o successivi (art. 625-ter) ed abrogando l’art. 175, comma 2, e l’art. 603, comma 4, C.p.P.
Corte di Cassazione Penale Sent. Sez. U Num. 52274 Anno 2016