Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte

Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d'arte Detenzione del bene Discriminazione diretta

 

 

 

 

 

 

 

 

Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente la “Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte” di cui al primo e al secondo comma dell’articolo 2048 del Codice Civile.

L’articolo 2048 del Codice Civile disciplina al primo comma la responsabilità dei genitori o del tutore per il danno causato dal fatto illecito “dei figli minori non emancipati” o delle persone soggette alla tutela che abitano con loro, e, al secondo comma la responsabilità dei “precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte” per il danno causato dal fatto illecito “dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza” .

Si tratta di due tipi di responsabilità diverse, in quanto la responsabilità espressamente prevista dal primo comma si basa sulla maggiore età, mentre la responsabilità del secondo comma concerne l’obbligo di vigilanza.

Ne deriva che l’articolo 2048 C.c. sotto il titolo “Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte” delinea due fattispecie non sovrapponibili, ovvero non configurabili come due species di un unico genus di responsabilità che si infrange sul confine della maggiore età dell’autore del fatto illecito.

L’unico elemento in comune fra le due fattispecie risiede nel terzo comma, il quale indica che a entrambe le responsabilità viene posto limite in una prova liberatoria, ovvero la prova “di non aver potuto impedire il fatto“, la quale non può avere un contenuto identico per le due fattispecie, poiché la fonte della responsabilità è diversa.

Invero, la mera lettura dei due commi dimostra la loro ontologica divergenza: il primo comma disegna quella che tradizionalmente viene qualificata come responsabilità per culpa in educando senza peraltro indicare che cosa genitori (e tutori) abbiano fatto o omesso di fare affinché la responsabilità insorga, tutto essendo incluso implicitamente nella qualità genitoriale da un lato e filiale dall’altro; il secondo comma, invece, indica expressis verbis che cosa non è stato fatto, cioè la “vigilanza“. Notoriamente, anche i genitori sono gravati di un onere di vigilanza dei figli minorenni, ma è evidente che la “vigilanza” del secondo comma è di contenuto specifico, in quanto si rapporta alla cognizione culturale e tecnica che viene trasferita dai responsabili ai loro “allievi e apprendisti“.

Già questo è sufficiente per escludere che il raggiungimento della maggiore età di per sé estingua l’onere della vigilanza, poiché la maggiore età non significa che il soggetto cessi di essere allievo o apprendista, ovvero cessi di essere sottoposto a quella vigilanza che, logicamente, è teleologica, ovvero necessaria per l’attività di insegnamento/addestramento cui si riferisce l’articolo 2048, secondo comma.

Il secondo comma, in altre parole, ha un tasso di specificità superiore rispetto al primo comma: l’attività dell’allievo/apprendista si svolge in un luogo e in un tempo specifici, quelli in cui si localizza e si protrae l’obbligo di vigilanza, ed è proprio la presenza dell’allievo/apprendista in quel luogo e in quel tempo che costituisce il presupposto del fatto illecito rilevante ai fini dell’art. 2048, secondo comma.

La specificità della fattispecie del secondo comma si riverbera pure nel fatto che l’evento dannoso può anche derivare proprio dalla natura dell’attività che viene insegnata: è il caso, per esempio, di un evento dannoso compiuto con l’attività lavorativa che l’apprendista effettua.

Peraltro una stretta connessione con l’attività di insegnamento sussiste normalmente pure nel caso in cui l’insegnamento non ha per oggetto attività materiali: a differenza dell’epoca, ormai ben risalente, in cui fu scritto il codice civile, al giorno d’oggi l’insegnamento viene ricevuto quasi sempre in un ambito collettivo, ovvero non tramite lezioni personali da parte appunto di “precettori“, bensì entro istituti scolastici. Ne consegue che l’insegnamento comporta anche il controllo della condotta sociale degli studenti in tale ambito, così da consentire che l’insegnamento sia praticato in modo proficuo e che gli studenti esperimentino in modo positivo la loro socialità, comportandosi in modo corretto e rispettoso delle persone con cui condividono la costante frequentazione dell’istituto scolastico come comparto sociale.

Il contenuto concreto dell’obbligo di vigilanza si innesta nel correlato concetto di caso fortuito quale elemento che, secondo principi generali, infrange il nesso causale tra la condotta del soggetto che si presume responsabile e l’evento dannoso. Il caso fortuito che discende dalla non prevedibilità dell’evento stesso e costituisce, nelle fattispecie di responsabilità indiretta, l’elemento che le circoscrive e impedisce che si configuri una responsabilità realmente oggettiva.

La prevedibilità dell’evento dannoso, nel senso più lato del termine (ovvero inclusivo pure di prevenibilità/evitabilità) individua al negativo il contenuto dell’obbligo di vigilanza dell’insegnante, e determina in che cosa deve consistere la vigilanza per evitare l’evento dannoso prevedibile: prevedibilità che, a sua volta, viene specificamente concretizzata dall’ambito in cui la vigilanza deve essere esercitata, ambito in cui l’elemento realmente dirimente è la necessità di vigilanza dei soggetti vigilati; la quale necessità a sua volta si commisura all’esistenza o meno  di una carenza di autosufficienza di tali soggetti nella gestione della propria condotta nell’ambito in cui si trovano e nell’attività che vi stanno svolgendo.

La vigilanza, invero, è un supporto suppletivo di cui devono fruire in primis proprio i soggetti vigilati che non abbiano ancora capacità di gestire, o di gestire in modo completo, la propria condotta nell’ambito e nell’attività specifici in cui si trovano, così da evitare di porre in essere fatti dannosi.

L’età della persona vigilata usualmente si rapporta, d’altronde, con il livello di capacità autogestionale.
Al riguardo il legislatore, conferendo la maggiore età, presume che tale età renda capace una persona normale sotto il profilo psicofisico in modo da evitare consapevolmente una condotta colpevole che cagioni danni a terzi.

Se, allora, nel caso specifico dell’articolo 2048, secondo comma, la maggiore età del soggetto non priva lo stesso del supporto della vigilanza da parte dell’insegnante, ciò non toglie che la presunzione di capacità di autogestione propria della maggiore età, incida così da rendere a questo punto imprevedibile, e quindi ordinariamente inevitabile, una condotta da parte dell’allievo maggiorenne che sia dannosa alle persone a lui prossime.

Se, dunque, permane la responsabilità ex articolo 2048, secondo comma, anche nel caso in cui l’allievo sia maggiorenne, in ultima analisi l’età maggiorenne incide comunque sul contenuto dell’onere probatorio dell’insegnante, in quanto la dimostrazione da parte sua della maggiore età dell’allievo, al di fuori, di condotte specificamente correlate ad un insegnamento tecnico, deve ritenersi ordinariamente sufficiente per provare che l’evento dannoso ha costituito un caso fortuito, essendo stato posto in essere da persona non necessitante di vigilanza alcuna in quanto giunta ad una propria completa capacità di discernimento. Questo principio non può non valere anche per le persone che sono ormai prossime alla maggiore età. Il caso fortuito non può non conformarsi alla complessiva realtà giuridica e sociale odierna in cui viene ad inserirsi una norma precauzionale come l’articolo 2048, secondo comma, C.c.

Corte di Cassazione Ord. Sez. 3 Num. 2334 Anno 2018

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