Relazione affettiva con la vittima nel reato di atti persecutori
“… E’ punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa“.
La relazione affettiva con la vittima nel reato di atti persecutori che il secondo comma dell’art. 612-bis cod. pen. individua come presupposto integrativo dell’aggravamento di pena, sancendo che si ha aggravamento se il fatto è commesso “dal coniuge anche se separato o divorziato, o da persona che è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa“.
In tal senso il legislatore presume l’esistenza di quella relazione di fiducia che proviene dalla vissuta stabilità di affetti, ancorchè il rapporto coniugale sia cessato ovvero interrotto dalla separazione, più precisamente “un legame connotato da un reciproco rapporto di fiducia, tale da ingenerare nella vittima aspettative di tutela e protezione” (si cita Cass., sentenza n. 11920 del 2018), ovvero una “stabile condivisione della vita comune“.
Evidentemente, la relazione affettiva che leghi autore del reato e vittima, richiamata dalla previsione aggravatrice, deve essere verificata in concreto, mediante la prova di elementi di fatto sintomatici della sua esistenza (che possono essere i più vari).
Così come pure deve ritenersi che, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., sebbene il concetto di “relazione affettiva” tra autore del reato e vittima – che fonda la ragione di aggravamento del disvalore della condotta e, conseguentemente, della sanzione – non debba intendersi necessariamente soltanto come “stabile condivisione della vita comune“, tuttavia detto concetto evoca, quantomeno, un legame connotato da un rapporto di fiducia, tale da ingenerare nella vittima aspettative di tutela e protezione (cfr. Cass., Sez. 3, n. 11920 del 9/1/2018), poiché è proprio l’abuso o l’approfittamento di tale legame di fiducia a costituire fondamento della ratio normativa.
Corte di Cassazione Penale sentenza Sez. 5 n. 21641 del 2023