Reati culturali

Reati culturali Dare in sposa la propria figlia Relazione sentimentale durante il matrimonio Il requisito della continenza Bacheca facebook Principio di libertà della prova Pressione psicologica Ripetibilità delle somme percepite a titolo di assegno di mantenimento Risarcimento del terzo trasportato comunione de residuo Marchio di impresa Assunzione della prova testimoniale Impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio Alterazione o cambiamento delle abitudini di vita della persona offesa Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza Termini a difesa Obbligazione assunta da un coniuge Risarcimento del danno non patrimoniale alla madre e ai fratelliReati culturali

In merito alla tematica dei c.d. reati culturali si è pronunciata la Corte di legittimità.

Con la formula reati culturali si intende “il conflitto che si determina tra ordinamenti di tipo consuetudinario tradizionale e ordinamenti di tipo statuale in presenza di un comportamento tenuto da un soggetto che si riconosce in un gruppo culturale minoritario che accetta tale comportamento come normale ovvero lo approva o addirittura lo incoraggia in quanto lo considera conforme alle consuetudini ed alle tradizioni religiose o sociali costituenti la cifra identitaria del gruppo medesimo, ma che, invece, è considerato illecito dall’ordinamento giuridico – indubbiamente espressione della cultura dominante – vigente nel luogo in cui il suddetto comportamento viene tenuto. Semplificando, il problema può definirsi quello della rilevanza di un conflitto normativo determinato dall’antinomia tra la norma penale ed una regola di matrice culturale ai fini dell’affermazione della responsabilità di colui che ha violato la prima per conformarsi alla seconda.

Non è dubbio che il “fattore culturale” sia in grado di percorrere trasversalmente la struttura del reato, potendo intersecare tanto il profilo della tipicità del fatto e della sua offensività, come quello della antigiuridicità, ma altresì quelli della colpevolezza e della commisurazione del trattamento sanzionatorio, quantomeno nella prospettiva della personalizzazione del giudizio di colpevolezza, della funzione rieducativa e risocializzante della pena e di un approccio sostanziale al principio di uguaglianza.

In proposito la giurisprudenza di legittimità ha espresso orientamenti non del tutto omogenei, ma che in realtà rivelano una evoluzione nell’approccio alla complessa tematica.

In molti casi, la rilevanza del “fattore culturale” è stata prevalentemente esclusa a qualunque livello, manifestando la “preoccupazione di parte della giurisprudenza che l’indefettibile ed uniforme applicazione nei confronti di tutti i possibili destinatari delle norme penali possa subire cedimenti in favore della valorizzazione della specificità culturale dell’autore di fatti normotipo e che pertanto venga vanificato il potenziale intimidatorio e di orientamento comportamentale delle medesime”.

In tal senso alcune pronunzie hanno affermato l’irrilevanza del carattere consuetudinario di alcuni comportamenti nell’ambito di culture minoritarie, sottolineando come al consuetudine può assumere efficacia scriminante solo in quanto venga richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all’art. 8 disp. prel. (Cass. Sez. 3 n. 2841 del 26.10.2006) ovvero si sono appellate ad una lettura rigorosamente formale del principio di eguaglianza e di pari dignità sociale, ritenuto uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione di diritto o di fatto nella società civile di consuetudini, prassi o costumi con esso assolutamente incompatibili (Cass. Sez. 6, n. 55 del 08.11.2002).

In altri casi si è più esplicitamente affermato l’obbligo per chi si inserisca volontariamente in un contesto culturale diverso da quello originario di conformare i propri valori a quelli dell’ordinamento “ospitante“, verificando compatibilmente la conformità dei propri comportamenti con i principi che lo regolano (Cass., Sez. 1, n. 24084 del 31.03.2017; Sez. 5, n. 37638 del 15.06.2012).

A fronte di un indirizzo che propugna posizioni più decisamente “assimilazioniste” che rivendicano l’incondizionata preminenza delle norme statuali sulla specificità culturale di cui l’agente è portatore, si registrano anche pronunzie che hanno invece riconosciuto rilevanza a tale specificità. Così, ad esempio, Sez. 6, n. 43636 del 22/06/2011, in tema di esercizio abusivo della professione medica, ha ritenuto scusabile l’ignorantia legis caduta sulla norma extrapenale integratrice anche in ragione del fattore culturale, mentre Sez. 1, n. 51059 del 4/12/2013, ha valorizzato il movente culturale-religioso al fine di escludere la configurabilità dell’aggravante dei futili motivi in relazione ad un caso di tentato omicidio.

La giurisprudenza di legittimità ha nel tempo consolidato un diverso approccio al tema, sfuggendo all’alternativa che, con estrema semplificazione, viene identificata in quella tra assimilazionismo e relativismo multiculturale. In tal senso si è osservato come come l’interferenza del movente culturale sugli elementi strutturali del reato deve essere valutata nell’ottica “dell’attento bilanciamento tra il diritto pure inviolabile, del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose, sociali, e i valori offesi o posti in pericolo dalla sua condotta” (Cass., Sez. 3, n. 29613 del  29.01.2018).

Viene dunque riconosciuto che dal regime di pluralismo confessionale e culturale delineato dalla nostra Costituzione agli art. 2 e 8 (Corte Cost. n. 63 del 2013; Corte Cost. n. 440 del 1995; Corte Cost. n. 203 del 1989)così come da numerose fonti sovranazionali, tra cui gli art. 8, 9, 14 CEDU, la Convenzione Onu di Parigi del 20 Ottobre 2005, sulla protezione e promozione delle diversità delle espressioni culturali, ratificata dall’Italia con la L. 19 Febbraio 2007, n. 19 e l’art. 22 della Carta di Nizza, discende il diritto del singolo alla tutela della propria identità culturale e religiosa, ma al contempo viene ribadito che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri, in quanto la tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate e in potenziale conflitto tra loro“, (Corte Cost. n. 264 del 2012) perchè altrimenti si verificherebbe una “illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe tiranno nei confronti della altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona” (Corte Cost. n. 85 del 2013; Corte Cost. n. 58 del 2018; Corte Cost. n. 33 del 2021).

E’ dunque prevalentemente in tale ottica che la giurisprudenza di legittimità ha escluso la “scriminante culturale” in tutti quei casi in cui l’esercizio del diritto dell’agente a rimanere fedele alle regole sociali del proprio gruppo identitario di riferimento si traduce nella negazione dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall’ordinamento costituzionale presidiati dalle norme penali violate. (Cass., Sez. 6, n. 55 del 2002; Cass., Sez., 6 n. 46300 del 2008; Cass., Sez.3, n. 14960 del 2015; Cass., Sez. 5 n. 37638 del 2012; Cass., Sez. 3, n. 8986 del 2019; Cass., Sez. 3, n. 7590 del 2019; Cass., Sez. 6 n. 14043 del 2020).t

Tale ricostruzione è conforme all’articolo 2 della Convenzione di Parigi del 2005, per la cui protezione del diritto alla diversità culturale non può essere invocata per violare i diritti umani e le libertà fondamentali consacrati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo o garantiti a livello sovranazionale.

L’esclusione dell’incidenza del “fattore culturale” sulla rilevanza penale della condotta lesiva di beni fondamentali, nelle sue oggettive connotazioni considerata, non impedisce in astratto che lo stesso fattore possa assumere invece rilevanza in riferimento ad altri elementi strutturali del reato ovvero alla determinazione del trattamento sanzionatorio, sia con riferimento alla commisurazione della pena all’interno della cornice edittale, che al riconoscimento delle attenuanti generiche ovvero di altre attenuanti comuni o speciali ove configurabili. In proposito la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha condivisibilmente osservato come a tal fine sia necessario valutare la natura della regola culturale in adesione alla quale la condotta è stata posta in essere – se cioè di matrice religiosa, consuetudinaria o positiva (prevista cioè dall’ordinamento giuridico di eventuale originaria appartenenza) – nonché il suo carattere vincolante per l’agente, ma altresì il livello di integrazione di quest’ultimo nel contesto sociale dominante.

Corte di Cassazione, sez. V penale, Sentenza n. 30538 del 04/08/2021

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