Rapporto di natura para-familiare e reato di maltrattamenti
La modulazione di tale rapporto, dunque, avuto riguardo alla ratio della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., deve comunque essere caratterizzata dal tratto della “familiarità”, poichè è soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della sua funzione attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti: si pensi, in via esemplificativa, al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista.
L’inserimento di tale figura criminosa tra i delitti contro l’assistenza familiare si pone in linea, del resto, con il ruolo che la stessa Costituzione assegna alla “famiglia“, quale società intermedia destinata alla formazione e all’affermazione della personalità dei suoi componenti, e nella stessa prospettiva ermeneutica vanno letti ed interpretati soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per una natura para-familiare.
Nel caso di specie il ricorrente, dipendente di banca, aveva subito una serie di comportamenti complessivamente ritenuti idonei a dequalificarne la professionalità, comportandone il passaggio da mansioni contrassegnate da una marcata autonomia decisionale a ruoli caratterizzati, per contro, da “bassa e/o nessuna autonomia”, e dunque tali da marginalizzarne, in definitiva, l’attività lavorativa, con un reale svuotamento delle mansioni da lui espletate. Tali comportamenti discriminatori sono consistiti segnatamente nella sottrazione di responsabilità in favore di altra dipendente; le ingiuste ed aspre critiche alla sua professionalità; il successivo inserimento in mansioni dequalificanti, con allocazione in un vero e proprio “sgabuzzino”, spoglio e sporco, e l’assegnazione a mansioni meramente esecutive e ripetitive, ecc..
Pur essendo tale situazione di fatto astrattamente riconducibile alla nozione di “mobbing“, sia pure in una sua forma di manifestazione attenuata, dai Giudici di merito denominata nel caso di specie come “straining“, occorre tuttavia rilevare che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing“) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (Sez. 6, n. 26594 del 06/02/2009, dep. 26/06/2009; Sez. 6, n. 685 dei 22/09/2010, dep. 13/01/2011; Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, dep. 22/11/2011; Sez. 6, n. 16094 del 11/04/2012, dep. 27/04/2012).
Siffatta connotazione, tuttavia, deve escludersi nel caso in esame, considerato che la posizione lavorativa del ricorrente era inquadrata all’interno di una realtà aziendale complessa, la cui articolata organizzazione – attraverso la previsione di “quadri intermedi” – non implicava certo l’instaurarsi di quella stretta ed intensa relazione diretta tra il datore di lavoro ed il dipendente, che appare in grado di determinarne una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare. Ne discende, inevitabilmente, il manifestarsi di una realtà connotata da una marginalizzazione dell’intensità dei rapporti intersoggettivi, nel senso che non ne viene esaltato quell’aspetto personalistico strettamente connesso alla dinamica relazionale “supremazia-soggezione“, individuabile fra soggetti che si trovano ad operare su piani diversi.
Conseguentemente, sulla base di quanto concordemente evidenziato, con congrue ed esaustive argomentazioni, dai Giudici di merito, non è in alcun modo apprezzabile, all’interno di tale vicenda storico- fattuale, la riduzione del soggetto più debole in una condizione esistenziale dolorosa ed intollerabile a causa della sopraffazione sistematica di cui egli sarebbe rimasto vittima all’interno di un rapporto quanto meno assimilabile a quello di natura familiare. Se, da un lato, è vero che l’art. 572 c.p. ha “allargato” l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endo-familiare, è pur vero, dall’altro, che la fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti in materia familiare ed espressamente indica nella rubrica la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli, sicchè non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di un generico rapporto di subordinazione/sovraordinazione. Da qui la ragione dell’indicazione del requisito della parafamiliarità del rapporto di sovraordinazione, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, d abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.
Se così non fosse ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro dovrebbe, per ciò solo, configurare una sorta di comunità (para)familiare, idonea ad imporre la qualificazione in termini di violazione dell’art. 572 c.p., di condotte che, pur di eguale contenuto ma poste in essere in un contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile (il ed “mobbing” in una realtà lavorativa, cui fa riferimento, tra le altre, la su citata sentenza della Sez. 6, n. 685/2011), con evidente profilo di irragionevolezza del sistema (Sez. 6, n. 12517 del 28/03/2012, dep. 03/04/2012).
Nè, infine, potrebbero trarsi, al riguardo, argomenti in senso contrario dall’analisi della recente interpolazione del testo normativo attraverso la modifica introdotta dalla novella legislativa n. 172
del 1 ottobre 2012, recante “Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonchè norme di adeguamento dell’ordinamento interno“.
L’art. 4, comma 1, lett. d), della legge sopra citata ha sostituito l’art. 572 c.p., novellandone la rubrica, ora denominata “Maltrattamenti contro familiari e conviventi“, ed aggiungendo i conviventi nel novero dei soggetti passivi del reato, ma la natura (abituale) e la struttura del reato di maltrattamenti (prima “in famiglia o verso fanciulli“, ora “contro familiari e conviventi“) sono rimaste sostanzialmente immutate. Le novità, infatti, riguardano essenzialmente la previsione di un
complessivo inasprimento del trattamento sanzionatorio e l’estensione della tutela nei confronti di persone “comunque conviventi“, in una prospettiva orientata, per un verso, a valorizzare l’incidenza della relazione intersoggettiva nell’ambito di operatività della fattispecie, e, per altro verso, ad allargare anche ad un rapporto di mera “convivenza” – non necessariamente qualificato dalla particolare natura del legame che ha portato alla sua instaurazione – la rilevanza del rapporto “familiare“, ferme restando le altre relazioni di tipo non propriamente familiare, la cui elencazione è rimasta immutata.
Corte di Cassazione penale, sez. VI, sentenza 03.07.2013, n. 28603