Prestazione di attività non retribuita in favore della collettività
Il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a dieci giorni nè superiore a sei mesi e consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato.
L’attività viene svolta nell’ambito della provincia in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di
salute del condannato. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali.La durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore.
Ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro.
Nel caso di specie il giudice del merito, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva disposto la revoca della sanzione sostitutiva dei lavori di pubblica utilità, ed il ripristino della pena originaria per il reato di guida in stato di ebbrezza, in quanto il condannato non aveva completato il lavoro di pubblica utilità perché l’ente presso cui era in corso di espiazione la sanzione sostitutiva non avrebbe indicato l’oggettiva impossibilità di affidare al condannato lavori di tipologia consona al suo livello culturale e sociale.
La norma di riferimento, che è l’art. 54, comma 3, d.lgs. 2000, n. 274, dispone soltanto che il lavoro di pubblica utilità debba essere svolto “con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato“, non contiene, quindi nessun riferimento al livello culturale e sociale del condannato.
Nessun elemento in più si ricava neanche dall’art. 186, comma 9-bis, del codice della strada, che disciplina i lavori di pubblica utilità soltanto mediante mero richiamo alla norma dell’articolo 54 del d.lgs. n. 274 appena citato, stabilendo che debbano essere svolti “secondo le modalità ivi previste“.
Qualche elemento in più lo offre l’art. 4 del d.m. 26 marzo 2001, emesso ai sensi dell’art. 54, comma 6, d.lgs. n. 274 citato, e recante “Norme per la determinazione delle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità“, che dispone che nell’esecuzione dei lavori debba essere assicurato “il rispetto delle norme e la predisposizione delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale dei condannati” e che “in nessun caso l’attività può svolgersi in modo da impedire l’esercizio dei fondamentali diritti umani o da ledere la dignità della persona“.
La circostanza che l’attività svolta non debba ledere la dignità della persona è, però, soltanto un limite negativo di carattere generale alla tipologia di lavori da sottoporre al condannato, ma non comporta l’obbligo per l’ente di predisporre un mansionario adeguato al livello culturale e sociale dello stesso, dovendo essere verificata ai fini della revoca della sanzione sostitutiva soltanto l’esigibilità della prestazione lavorativa che è stata chiesta al condannato (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 58060 del 20/10/2017; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 35809 del 20/04/2016).
Corte di Cassazione sentenza Sez. I, n. 4248 del 01/02/2023