Permanenza all’aperto del detenuto in regime di cui all’art. 41-bis Ordinamento penitenziario
Con riguardo alla permanenza all’aperto del detenuto in regime di cui all’art. 41-bis Ordinamento penitenziario va rammentato che il comma 2-quater, lett. f), dell’articolo citato, così come introdotto dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, prescrive che i detenuti soggetti al regime differenziato siano sottoposti a delle limitazioni della «permanenza all’aperto» non previste per gli altri ristretti; permanenza che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone e che deve avere una durata non superiore a due ore al giorno.
In merito a tale disciplina, la Corte di legittimità ha precisato che la nozione di “permanenza all’aperto” non può consistere in una mera permanenza al di fuori della cella (nella specie nelle sale di biblioteca, palestra ecc.), dovendo essa svolgersi, secondo la previsione dell’art. 16 Reg. esec. Ord. pen., all’aria aperta (Sez. 1, n. 44609 del 27/06/2018).
In particolare, detta nozione non può essere confusa con la fruizione della cd. socialità, prevista dagli artt. 5 e 12 della legge n. 354 del 1975, che viene svolta nelle stanze detentive, all’ora dei pasti (riunendosi in piccoli gruppi), oppure nelle apposite “salette” (Sez. 1, n. 17580 del 28/2/2019).
Va, inoltre, rilevato che l’art. 41-bis Ord. pen. rinvia ad un limite quantitativo che attualmente non può scendere sotto le due ore, conformemente alla previsione contenuta nell’art. 14-ter, comma 4, Ord. pen., che fa espresso riferimento – mutuando l’espressione utilizzata dall’art. 10 Ord. pen., come modificato dal d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 123 (“Riforma dell’ordinamento penitenziario, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), d), i), I), m), o), r), t) e u), della legge 23 giugno 2017, n. 103“) – alla «permanenza all’aperto per almeno due ore al giorno», con ciò chiarendo che il limite minimo è costituito da due ore all’aria aperta.
In ogni caso, la violazione di legge derivante dalla mancata fruizione da parte del detenuto in regime differenziato delle effettive ore all’aria aperta, ove riscontrata, non integra automaticamente un trattamento contrario all’art. 3 CEDU, tale da giustificare il riconoscimento del rimedio risarcitorio speciale di cui all’art. 35-ter Ord. pen..
Invero, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, una situazione non conforme all’art. 3 CEDU, che legittima il ricorso ai rimedi di cui all’art. 35-ter Ord. pen, deve concretizzarsi in un “fatto” che denoti un livello di gravità tale da poterlo recuperare ad una afflittività assolutamente non giustificata e che risulta non tollerabile nel comune sentire e in una condizione “civile” di vita del detenuto (così, in motivazione, Sez. U, n. 6551 del 24/9/2020, dep. 2021; tra le altre, Sez. 1, n. 20985 del 23/6/2020; Sez. 1, n. 14258 del 23/1/2020).
Per rientrare nel raggio d’azione dell’art. 3 CEDU, pertanto, la valutazione della soglia anzidetta è per sua essenza relativa, in quanto dipende dall’insieme delle circostanze della fattispecie e, in particolare, dalla durata del trattamento, dai suoi effetti fisici e psichici, oltre che, a volte, dal sesso, dall’età, dallo stato di salute delle vittime.
L’apprezzamento di un determinato comportamento e della sua portata lesivo-afflittiva verso i diritti del detenuto e verso i divieti di trattamenti inumani e degradanti si apprezza, quindi, attraverso una valutazione concreta della complessiva condizione di detenzione.
Corte di Cassazione Penale Sent. Sez. 1 n. 5832 del 2024