Ospedale psichiatrico giudiziario (OPG)

OPG Sanzione accessoria della revoca della patente del custode Pignorabilità dei redditi da lavoro Avviso orale rafforzato Gravita della diffamazione Reddito di inclusione Abuso di ufficio Cognome del figlio Modifica dell’originaria imputazione Messa alla prova nell’ipotesi in cui si proceda per reati connessi Responsabilità civile dei magistrati Risarcimento del danno Tutela del patrimonio storico della Prima guerra mondiale Esercizio del commercio in aree di valore culturale Codice dei beni culturali Limiti al diritto di manifestare liberamente La libertà di manifestazione del pensiero La tutela dei beni culturali Prostituzione volontaria Immobili ed aree di notevole interesse pubblico Reddito di cittadinanza Diffamazione a mezzo stampa giudizio abbreviato e immediato Controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni Libertà e la segretezza della corrispondenza violenza sessuale di gruppoOspedale psichiatrico giudiziario (OPG)

L’Ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) è un istituto di reclusione per detenuti con infermità mentale, definitivamente chiuso con la Legge n. 81 del 2014, e sostituito dalle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS).

L’art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), come convertito con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9, prevedeva anzitutto, al comma 1 nella sua versione originaria, il superamento degli OPG entro il termine del 1° febbraio 2013 (termine poi più volte prorogato, da ultimo fino al 31 marzo 2015, come oggi chiarito dal comma 4 della disposizione).

Il comma 2 demanda a un decreto di natura non regolamentare del Ministro della salute – da emanare di concerto con il Ministro della giustizia e d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano – la definizione dei requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle «strutture destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia».

Il comma 3 specifica che l’emanando decreto dovrà attenersi ai criteri guida dell’esclusiva gestione sanitaria all’interno delle strutture, di una attività soltanto perimetrale di sicurezza e vigilanza esterna, e della destinazione delle strutture ai «soggetti provenienti, di norma, dal territorio regionale di ubicazione delle medesime».

Il comma 4 prevede che, a partire dal completamento del processo di superamento degli OPG, le misure di sicurezza del ricovero in OPG e dell’assegnazione a casa di cura e custodia siano eseguite esclusivamente all’interno delle strutture sanitarie di cui al comma 2, specificando tra l’altro che «[il] giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale».

I commi successivi dettano le relative disposizioni finanziarie; e il comma 9 stabilisce che nell’ipotesi di mancato rispetto, da parte delle Regioni e delle Province autonome, del termine fissato per la presentazione dei programmi di utilizzo delle risorse o di mancato completamento di tali programmi, il Governo provveda in via sostitutiva.

In attuazione dei commi 2 e 3 dell’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, come convertito, il Ministro della salute, di concerto con il Ministro della giustizia e acquisita l’intesa della Conferenza unificata, ha emanato il decreto del 1° ottobre 2012, che ha dettato i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle strutture destinate a sostituire gli OPG.

Tale decreto, all’Allegato A, ha disciplinato le caratteristiche delle aree abitative di tali strutture, prevedendo in particolare un numero massimo di venti posti letto a struttura e disponendo che con appositi accordi tra il DAP, il Ministero della salute, le Regioni e le Province autonome venisse regolamentato lo svolgimento delle funzioni di cui alla legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) e al d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà), anche con riferimento agli aspetti della esecuzione della misura di sicurezza e alle forme dei rapporti con la magistratura. Il decreto ha altresì regolamentato la tipologia di attrezzature necessarie, il numero e la tipologia di operatori sanitari che debbono essere presenti in ciascuna residenza, nonché l’organizzazione del lavoro degli operatori stessi, «fermo restando quanto sarà disciplinato dagli appositi Accordi in materia, [e rinviando] alla potestà delle Regioni e delle Province Autonome, ai sensi del Titolo V della Costituzione, l’organizzazione delle strutture residenziali».

Secondo quando previsto dall’Allegato A del predetto decreto del Ministro della salute, il 26 febbraio 2015 la Conferenza unificata ha stabilito con apposito accordo tra il Governo, le Regioni, le Province autonome e le autonomie locali la disciplina delle strutture medesime, denominate «Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza» (REMS).

Nelle premesse di tale accordo, si rammenta che «i diritti delle persone internate negli OPG […] sono disciplinati dalla normativa penitenziaria di cui alla legge 26 luglio 1975, n. 354 e del decreto del Presidente della Repubblica del 30 giugno 2000, n. 230», e si stabilisce che «con il passaggio ad una organizzazione esclusivamente sanitaria alle persone internate nelle REMS sono garantiti tutti i diritti di cui al precedente alinea [e cioè i diritti riconosciuti dalla legge sull’ordinamento penitenziario e dal relativo regolamento], secondo proprie procedure ed organizzazione; e che, in tal senso, detti diritti sono pienamente garantiti, in prospettiva ampliativa, anche in considerazione della esclusiva gestione sanitaria».

Sempre in premessa, si afferma la necessità di predisporre per ogni paziente uno «specifico percorso terapeutico-riabilitativo individualizzato», che comprenda tra l’altro «la prevenzione dei comportamenti a rischio – che sia comunque finalizzato alla reintegrazione sociale – nonché aspetti specifici di trattamento […] anche attraverso il mantenimento (o la ricostruzione) dei rapporti con la famiglia, con la comunità esterna, con il mondo del lavoro». Si impegnano poi le Regioni e le Province autonome a «garantire l’accoglienza nelle proprie REMS di persone sottoposte a misura di sicurezza detentiva residenti nel proprio ambito territoriale regionale o provinciale», specificando però che la capienza massima di venti ospiti prevista dal decreto del Ministro della Salute del 1° ottobre 2012 deve intendersi come «inderogabile», dovendo le Regioni e le Province autonome provvedere «ad una idonea programmazione che tenga conto delle esigenze in corso e a venire, con specifico riguardo alla evoluzione del numero dei propri pazienti».

Tutto ciò premesso, l’accordo regola, tra l’altro, il trasferimento nelle REMS, a cura del DAP, degli internati presenti negli OPG secondo il principio della territorialità, in base alla disponibilità di posti letto nelle strutture (art. 1), e fissa il principio secondo cui – superato un periodo transitorio di un anno, che prevede il coinvolgimento del personale dell’amministrazione penitenziaria – i procedimenti di ammissione alle REMS e la gestione dei rapporti con l’autorità giudiziaria, comprensivi della comunicazione dei provvedimenti da questa emessi («a titolo di esempio: permessi, licenze, notifiche»), siano di esclusiva competenza del personale amministrativo delle REMS (art. 3), sotto la responsabilità di un direttore sanitario (art. 5), restando demandati a specifici accordi con le prefetture i servizi di sicurezza e vigilanza perimetrale sulle strutture (art. 6). Si demanda poi a specifici accordi tra le Regioni, le Province autonome, il DAP e «la Magistratura, attraverso le proprie articolazioni territorialmente competenti per ciascuna REMS», la definizione delle «modalità di collaborazione […] inerenti l’applicazione delle misure di sicurezza detentive, la loro trasformazione e l’eventuale applicazione di misure di sicurezza, anche in via provvisoria, non detentive», dovendosi in tali accordi prevedere «il costante coinvolgimento degli Uffici Esecuzione Penale Esterna territorialmente competenti», nonché la predisposizione e l’invio alle autorità giudiziarie competenti dei progetti terapeutico-riabilitativi individuali finalizzati all’adozione di soluzioni diverse dalla REMS (art. 7).

Non essendosi compiuto il processo di chiusura degli OPG entro il termine del 31 marzo 2015, da ultimo previsto dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 52 del 2014, come convertito, il Governo, esercitando il potere sostitutivo ex art. 120 Cost. previsto dall’art. 3-ter, comma 9, del d.l. n. 211 del 2011, come convertito, ha nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 19 febbraio 2016 un commissario unico per provvedere in via sostitutiva, in luogo delle Regioni Calabria, Abruzzo, Piemonte, Toscana, Puglia e Veneto, alla realizzazione di programmi al fine di garantire la chiusura degli OPG e il tempestivo ricovero presso le competenti REMS delle persone ancora ivi internate.

Il commissario ha concluso il proprio mandato nel febbraio 2017, dando atto del raggiungimento dell’obiettivo del definitivo superamento degli OPG nell’intero territorio nazionale, ma sottolineando al contempo una serie di difficoltà applicative nell’esecuzione delle misure di sicurezza nelle REMS (relazioni semestrali rispettivamente relative al periodo 19 febbraio-19 agosto 2016 e al periodo 19 agosto 2016-19 febbraio 2017).

Al riguardo, è anzitutto necessario chiarire quale sia la natura della misura di assegnazione a una REMS.

Già dallo scarno dato testuale del comma 3 della disposizione suindicata emerge l’accentuata vocazione di strumento di tutela della salute mentale del destinatario che il legislatore ha inteso assegnare alle strutture in questione: esse debbono essere caratterizzate da una «esclusiva gestione sanitaria» al loro interno, e possono prevedere, «ove necessario in relazione alle condizioni dei soggetti interessati», una attività di sicurezza e di vigilanza soltanto «perimetrale» ed «esterna», sì da impedire l’allontanamento non autorizzato dalle strutture.

Appare inoltre evidente l’ulteriore intenzione del legislatore di inserire la realizzazione e la successiva gestione delle strutture in questione nell’ambito dei sistemi sanitari regionali, e in particolare dei rispettivi dipartimenti per la salute mentale. Il comma 2 demanda, infatti, l’ulteriore disciplina delle strutture a un successivo decreto del Ministro della salute, da adottarsi di concerto con il Ministro della giustizia e d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le autonomie territoriali; mentre i commi successivi assegnano risorse finanziarie alle Regioni e alle Province autonome allo scopo, tra l’altro, di realizzare le strutture medesime.

Cionondimeno, l’assegnazione a una REMS – così come oggi concretamente configurata nell’ordinamento – non può essere considerata come una misura di natura esclusivamente sanitaria.

Il comma 4 dell’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, come convertito, dispone che, a partire dalla data di definitiva chiusura degli OPG, «le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia sono eseguite esclusivamente all’interno delle strutture sanitarie di cui al comma 2», sempre che permanga la pericolosità sociale della persona interessata.

La disposizione ora menzionata, pur non chiarissima nel suo dato letterale (che potrebbe anche intendersi come riferito alle sole misure già disposte al momento della chiusura degli OPG), costituisce la base normativa che consente oggi di sostituire automaticamente i riferimenti alle misure di sicurezza del ricovero in OPG o dell’assegnazione a casa di cura e di custodia, ancora presenti nel codice penale e nella disciplina penitenziaria, con l’assegnazione a una REMS.

Quest’ultima costituisce così, a tutti gli effetti, una nuova misura di sicurezza, ispirata ad una logica di fondo assai diversa rispetto al ricovero in OPG o all’assegnazione a casa di cura o di custodia, ma applicabile in presenza degli stessi presupposti, salvo il nuovo requisito della inidoneità di ogni misura meno afflittiva introdotto dall’art. 3-ter, comma 4, del d.l. n. 211 del 2011, come convertito. Al punto che l’art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 52 del 2014, convertito nella legge n. 81 del 2014, include espressamente il «ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza» tra le «misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive».

L’analisi dei contenuti dell’assegnazione a una REMS conferma la sua distinzione da ogni ordinario trattamento sanitario della salute mentale, in armonia con la sua caratterizzazione anche come misura di sicurezza.

L’assegnazione in parola consiste, anzitutto, in una misura limitativa della libertà personale – il che è evidenziato già dalla circostanza che al soggetto interessato può essere legittimamente impedito di allontanarsi dalla REMS. Durante la sua esecuzione possono essere praticati al paziente trattamenti sanitari coattivi, ossia attuabili nonostante l’eventuale volontà contraria del paziente. Essa si distingue, peraltro, dal trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale disciplinato dagli articoli da 33 a 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), esso pure di carattere coattivo, giacché:

– presuppone non solo a) una situazione di malattia mentale (un «vizio di mente», secondo la terminologia del codice penale), ma anche b) la previa commissione di un fatto costitutivo di reato da parte del soggetto che vi deve essere sottoposto (art. 202 cod. pen.), nonché c) una valutazione di pericolosità sociale di quest’ultimo (ancora, art. 202 cod. pen.), intesa quale probabilità di commissione di nuovi fatti preveduti dalla legge come reati (art. 203 cod. pen.);

– è applicata non già dall’autorità amministrativa con successiva convalida giurisdizionale, come nell’ipotesi disciplinata dall’art. 35 della legge n. 833 del 1978, bensì dal giudice penale, con la sentenza che accerta il fatto (art. 222 cod. pen.) ovvero in via provvisoria (art. 206 cod. pen.);

– sulla sua concreta esecuzione sovraintende il magistrato di sorveglianza (art. 679, comma 2, cod. proc. pen.; art. 69, comma 3, ordin. penit.), che «[p]rovvede al riesame della pericolosità ai sensi del primo e secondo comma dell’art. 208 del codice penale, nonché all’applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza» (art. 69, comma 4, ordin. penit.), e dunque può sempre revocare l’assegnazione ad una REMS ovvero sostituirla con la meno afflittiva misura della libertà vigilata (sentenza n. 253 del 2003), con correlativo affidamento dell’interessato ai servizi territoriali per la cura della salute mentale.

In quanto misura di sicurezza, l’assegnazione alla REMS non può che trovare la propria peculiare ragion d’essere – a fronte della generalità dei trattamenti sanitari per le malattie mentali – in una specifica funzione di contenimento della pericolosità sociale di chi abbia già commesso un reato, o sia gravemente indiziato di averlo commesso, in una condizione di vizio totale o parziale di mente.

Questa funzione, d’altronde, non è incompatibile con la finalità di cura della malattia mentale: anzi, proprio in tale concorrente finalità – essa stessa espressiva del dovere primario dell’ordinamento di cura della salute di ogni individuo, sancito dall’art. 32 Cost. – si realizza, rispetto a questa specifica categoria di autori di reato, la vocazione naturale di ogni misura di sicurezza al loro recupero sociale che accomuna, nel vigente quadro costituzionale, pene e misure di sicurezza (sentenze n. 197 del 2021, punto 4 del Considerato in diritto, e n. 73 del 2020, punto 4.4. del Considerato in diritto).

Come la Corte Costituzionale, quasi un ventennio fa, ebbe a sottolineare a proposito della misura di sicurezza dell’OPG e – implicitamente – della misura della libertà vigilata per i malati mentali, resa possibile proprio da quella pronuncia, l’infermità di mente di autori di reato che, essendo penalmente non responsabili, «non possono essere destinatari di misure aventi un contenuto anche solo parzialmente punitivo», richiede «misure a contenuto terapeutico, non diverse da quelle che in generale si ritengono adeguate alla cura degli infermi psichici. D’altra parte, la pericolosità sociale di tali persone, manifestatasi nel compimento di fatti costituenti oggettivamente reato, e valutata prognosticamente in occasione e in vista delle decisioni giudiziarie conseguenti, richiede ragionevolmente misure atte a contenere tale pericolosità e a tutelare la collettività dalle sue ulteriori possibili manifestazioni pregiudizievoli. Le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci totali si muovono inevitabilmente fra queste due polarità, e in tanto si giustificano, in un ordinamento ispirato al principio personalista (art. 2 della Costituzione), in quanto rispondano contemporaneamente a entrambe queste finalità, collegate e non scindibili (cfr. sentenza n. 139 del 1982), di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste finalità (e così a quella di controllo dell’infermo “pericoloso”), e non all’altra, non potrebbe ritenersi costituzionalmente ammissibile» (sentenza n. 253 del 2003).

La sostituzione delle misure di sicurezza del ricovero in OPG e dell’assegnazione a casa di cura e di custodia, così come previste dal legislatore penale del 1930, con l’assegnazione alla REMS rappresenta un passo significativo nella direzione dell’attuazione dei principi espressi in quella pronuncia. A fronte della conclamata inidoneità di quelle istituzioni, costruite attorno a una logica custodialistica che privilegiava in maniera pressoché esclusiva le ragioni di tutela della collettività contro la pericolosità dell’internato, finendo per sancirne di fatto la totale e spesso definitiva segregazione dal contesto sociale, la disciplina che ha gradualmente preso forma a partire dal 2012 ha ripensato in radice la logica delle misure di sicurezza per gli autori di reato non imputabili o semimputabili, onde assicurarne l’effettiva funzionalità a quella finalità terapeutica che ne condiziona, per quanto appena osservato, la stessa legittimità costituzionale.

Coerentemente, si è conferito marcato carattere terapeutico-riabilitativo alla nuova misura dell’assegnazione in REMS, costruita attorno all’idea di un percorso di progressiva riabilitazione sociale, da compiersi in strutture residenziali di dimensioni ridotte chiamate a favorire il mantenimento o la ricostruzione dei rapporti con il mondo esterno. Parallelamente, si è espressamente confinato l’ambito applicativo di questa nuova misura – pur sempre custodiale – ai casi in cui essa si riveli effettivamente necessaria a contenere la pericolosità sociale dell’autore di reato, in applicazione del principio di extrema ratio, o di minore sacrificio necessario, desumibile dall’art. 13 Cost. in relazione a tutte le misure privative della libertà personale (sentenza n. 250 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto, in relazione alle misure di sicurezza detentive; sentenza n. 179 del 2017, punto 4.4. del Considerato in diritto, in relazione alla pena detentiva; sentenza n. 265 del 2010, punto 13 del Considerato in diritto, in relazione alle misure cautelari). In difetto di effettiva necessità, il giudice dovrà dunque privilegiare strategie di controllo e di terapia alternative, come in particolare quelle assicurate dai dipartimenti per la salute mentale territorialmente competenti, eventualmente nel quadro delle prescrizioni dettate attraverso la meno afflittiva misura della libertà vigilata.

La natura “ancipite” di misura di sicurezza a spiccato contenuto terapeutico che l’assegnazione in una REMS conserva nella legislazione vigente comporta, peraltro, la necessità che essa si conformi ai principi costituzionali dettati, da un lato, in materia di misure di sicurezza e, dall’altro, in materia di trattamenti sanitari obbligatori.

Sul primo versante, l’art. 25, terzo comma, Cost. dispone che «[n]essuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge». Tale norma costituzionale declina il principio di legalità rispetto alle misure di sicurezza in modo differenziato rispetto a quanto previsto nel secondo comma a proposito delle pene, non prevedendo – in particolare – la garanzia della loro irretroattività in peius. Tuttavia, non vi è motivo per ritenere che il diverso corollario della riserva di legge, espressamente stabilito tanto nel secondo quanto nel terzo comma, abbia contenuto differenziato rispetto a pene e misure di sicurezza, trattandosi dunque sempre di una riserva di legge statale, da intendersi come assoluta (sul carattere assoluto della riserva di legge in materia penale, ordinanza n. 24 del 2017 e sentenze n. 333 del 1991, n. 282 del 1990 e n. 26 del 1966; sulla insufficienza di una legge regionale a soddisfare la riserva di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., sentenze n. 5 del 2021, n. 134 del 2019 e n. 487 del 1989).

Inoltre, per quanto l’art. 25, terzo comma, Cost. espressamente richieda soltanto che la legge preveda i «casi» in cui può essere applicata una misura di sicurezza, una lettura di tale norma alla luce dell’art. 13, secondo comma, Cost. non può non condurre alla conclusione che la legge deve altresì prevedere, almeno nel loro nucleo essenziale, i «modi» con cui la misura di sicurezza può restringere la libertà personale del soggetto che vi sia sottoposto. È infatti impensabile che la Costituzione abbia inteso, in linea generale, gravare la legge dell’onere di precisare le modalità delle possibili restrizioni della libertà di personale, e abbia poi rinunciato a tale requisito proprio nei confronti delle pene e delle misure di sicurezza, e cioè delle misure che più tipicamente sono suscettibili di restringere la libertà personale degli individui, ed anzi di privarli della loro libertà, spesso per periodi duraturi o – addirittura – per l’intera vita residua. Proprio per soddisfare tale requisito costituzionale, d’altronde, il legislatore è intervenuto, mediante la legge sull’ordinamento penitenziario del 1975, a dettare una puntuale e articolata disciplina in materia di esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza, che per troppo tempo era rimasta affidata a mere fonti secondarie (per l’ormai risalente affermazione, nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’ordinamento penitenziario è «materia di legge, alla stregua dell’art. 13 Cost.», sentenza n. 26 del 1999; sull’estensione di un diverso corollario della legalità della pena – in particolare, il divieto di applicazione retroattiva in peius – alla disciplina delle modalità esecutive della pena, sentenze n. 32 del 2020 e, successivamente, n. 183 del 2021 e n. 193 del 2020).

Considerazioni in parte analoghe debbono essere svolte anche sul diverso versante della riserva di legge in materia di trattamenti sanitari obbligatori, di cui all’art. 32, secondo comma, Cost. Quanto meno allorché un dato trattamento sia configurato dalla legge non soltanto come “obbligatorio” – con eventuale previsione di sanzioni a carico di chi non si sottoponga spontaneamente ad esso –, ma anche come “coattivo” – potendo il suo destinatario essere costretto con la forza a sottoporvisi, sia pure entro il limite segnato dal rispetto della persona umana –, le garanzie dell’art. 32, secondo comma, Cost. debbono sommarsi a quelle dell’art. 13 Cost., che tutela in via generale la libertà personale, posta in causa in ogni caso di coercizione che abbia ad oggetto il corpo della persona (sentenza n. 238 del 1996). Con conseguente necessità che la legge preveda anche i «modi», oltre che i «casi», in cui un simile trattamento – che lo stesso art. 32, secondo comma, Cost. esige d’altronde sia «determinato», e dunque descritto e disciplinato dalla legge – può essere eseguito contro la volontà del paziente.

L’attuale disciplina in materia di assegnazione alle REMS rivela però evidenti profili di frizione con tali principi.

In effetti, l’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, come convertito, in questa sede censurato, rappresenta la sola disposizione contenuta in un atto avente forza di legge su cui si fonda, oggi, l’intera disciplina dell’assegnazione a una REMS. La disposizione in parola – inserita in sede di conversione del decreto-legge in questione con lo scopo essenziale di dare avvio al processo di definitivo superamento degli OPG, i cui gravi difetti erano apparsi vieppiù evidenti alla luce delle conclusioni della commissione di inchiesta parlamentare, pubblicate appena qualche mese prima – contiene al comma 4, come poc’anzi rammentato, la clausola di “trasformazione automatica” nella nuova misura dei ricoveri in OPG e dell’assegnazione a casa di cura e di custodia disposte dall’autorità giudiziaria; e si limita poi, al comma 3, a dettare tre principi generali – esclusiva gestione sanitaria, attività di vigilanza perimetrale e di sicurezza esterna, destinazione di norma delle strutture a soggetti residenti nella regione – cui si sarebbe dovuta attenere la regolamentazione delle nuove «strutture», ancora neppure individuate con il nome di REMS. Il comma 2 demanda poi pressoché interamente tale regolamentazione a un successivo decreto non regolamentare del Ministro della salute, da adottarsi di concerto con il Ministro della giustizia e d’intesa con la Conferenza Stato e autonomie territoriali.

Conseguentemente, la gran parte della disciplina vigente delle REMS si fonda oggi su atti distinti dalla legge: sul decreto ministeriale del 1° ottobre 2012 , sull’accordo adottato in Conferenza unificata il 26 febbraio 2015 e, a cascata, su tutti gli atti conseguenti adottati a livello delle singole Regioni e Province autonome.

Il risultato è che, se oggi la fonte primaria – e in particolare le norme del codice penale, in combinato disposto con l’art. 3-ter, comma 4, del d.l. n. 211 del 2011, come convertito – indica in quali «casi» può trovare applicazione la nuova misura di sicurezza (in pratica: tutti quelli in cui, in passato, poteva essere applicato il ricovero in OPG o l’assegnazione a casa di cura o di custodia, risultando inidonea ogni possibile alternativa non custodiale), i «modi» di esecuzione della misura, e dunque della privazione di libertà che ne è connaturata, restano invece pressoché esclusivamente affidati a fonti subordinate e accordi tra il Governo e le autonomie territoriali.

Non solo: tanto il codice penale, quanto la legge sull’ordinamento penitenziario e il regolamento penitenziario continuano oggi a menzionare e a disciplinare le misure di sicurezza del ricovero in OPG e dell’assegnazione in casa di cura e custodia, ormai scomparse dall’ordinamento per effetto della disposizione in questa sede censurata, senza che il legislatore si sia ancora fatto carico di modificare tali riferimenti e di operare i necessari coordinamenti di disciplina – coordinamenti, peraltro, non solo formali, stante la profonda differenza di struttura, di funzionamento e di logica complessiva delle REMS rispetto ai previgenti istituti.

La necessità che una fonte primaria disciplini organicamente tale misura a livello statale, stabilita dalla Costituzione, risponde d’altronde a ineludibili esigenze di tutela dei diritti fondamentali dei suoi destinatari, particolarmente vulnerabili proprio in ragione della loro malattia. Basti pensare, in proposito, che nella prassi dei trattamenti per la cura della malattia mentale non infrequentemente si fa uso delle pur controverse pratiche della contenzione fisica o farmacologica, che rappresentano forse le forme più intense di coazione cui possa essere sottoposta una persona. Gli artt. 13 e 32, secondo comma, Cost., unitamente all’art. 2 Cost. – che tutela i diritti involabili della persona, tra cui la sua integrità psicofisica – esigono che il legislatore si assuma la delicata responsabilità di stabilire – in ogni caso in chiave di extrema ratio ed entro i limiti della proporzionalità rispetto alle necessità terapeutiche e del rispetto della dignità della persona – se e in che misura sia legittimo l’uso della contenzione all’interno delle REMS, ed eventualmente quali ne siano le ammissibili modalità di esecuzione (sui limiti di legittimità della contenzione fisica del paziente psichiatrico dal punto di vista del diritto internazionale dei diritti umani, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenze 19 febbraio 2015, M.S. contro Croazia n. 2, paragrafi 98 e 103-105, nonché, più recentemente, 15 settembre 2020, Aggerholm contro Danimarca, paragrafi 81-85; nell’ordinamento tedesco, recentemente sul tema Tribunale costituzionale federale, sentenza 24 luglio 2018, 2 BvR 309/15 e 2 BvR 502/16).

Ancora, la legge non può non farsi carico della necessità di disciplinare in modo chiaro, e uniforme per l’intero territorio italiano, il ruolo e i poteri dell’autorità giudiziaria, e in particolare della magistratura di sorveglianza, rispetto al trattamento degli internati nelle REMS e ai loro strumenti di tutela giurisdizionale nei confronti delle decisioni delle relative amministrazioni (sull’obbligo costituzionale, gravante sull’ordinamento, di assicurare «garanzie giurisdizionali entro le istituzioni preposte all’esecuzione delle misure restrittive della libertà personale», sentenza n. 26 del 1999). La vocazione accentuatamente terapeutica di tali strutture non esclude che il trattamento in esse praticato avvenga in una situazione in cui il paziente è fortemente limitato nella propria libertà personale; e non fa venir meno, pertanto, la necessità di tutelarlo efficacemente contro sempre possibili abusi.

Corte Costituzionale Sentenza n. 22 anno 2022 

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