Divieto di avvicinamento dell’imputato “a luoghi frequentati dalla persona offesa”: determinatezza della misura
Com’è noto, l’art. 282-ter cod. proc. pen. – introdotto dal D. L. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con mod., dalla legge 23 aprile 2009, n. 38 – ha tipizzato una nuova figura di misura cautelare al fine di contrastare, prevalentemente, il fenomeno degli atti persecutori, costituito dal divieto di avvicinamento dell’imputato o dell’indagato “a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa“, nonché dall’imposizione dell’obbligo di “mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa“.
È vivo nella giurisprudenza della Corte di legittimità il dibattito sui caratteri che devono avere le misure suddette, affinché le esigenze di cautela sottese alla norma siano conciliabili con i diritti e le necessità della persona cui le misure sono imposte, sotto un duplice profilo:
a) quello di determinare una compressione della libertà di movimento dell’onerato nella misura strettamente necessaria alla tutela della vittima;
b) quella di assicurare una sufficiente determinatezza della misura, affinché sia ben chiaro all’obbligato quali comportamenti deve tenere e sia eseguibile il controllo sulla corretta osservanza delle prescrizioni a lui imposte. È compito del giudice, pertanto, riempire la misura di contenuti adeguati agli obbiettivi da raggiungere e rendere la misura sufficientemente determinata, per evitare elusioni o problematiche applicative.
Si ritiene che una interpretazione letterale della norma consenta di superare le difficoltà applicative create da una misura che, nello spirito della legge, deve essere “calibrata” sulla situazione di fatto che si vuole tutelare in via cautelare. Ebbene, l’art. 282-ter prevede – innanzitutto – il divieto di avvicinamento “a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa” e l’obbligo di “mantenere una determinata distanza da tali luoghi“, al fine – evidente – di assicurare alla vittima uno spazio fisico libero dalla presenza del soggetto che si è reso autore di reati in suo danno.
La norma ricalca l’analoga previsione contenuta nell’art. 282-bis cod. proc. pen., introdotto per analoghe ragioni, dalla legge 4 aprile 2001, n. 154, secondo cui il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può ordinare all’imputato o all’indagato, oltre che di lasciare immediatamente la casa familiare, “di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti“.
In entrambe le disposizioni è contenuta, quindi, l’avvertenza di riempire la prescrizione di un contenuto specifico: quello della individuazione (“determinazione“) del luogo a cui l’autore del reato non si deve avvicinare. Tale previsione corrisponde ad una esigenza pratica e una esigenza di giustizia: l’esigenza pratica è quella di rendere noto all’obbligato quali sono i luoghi da evitare, alla cui determinatezza è collegata la stessa praticabilità della misura; l’esigenza di giustizia è quella di contenere le limitazioni imposte all’indagato nei limiti strettamente necessari alla tutela della vittima e di assicurare a quest’ultima la certezza di uno spazio libero dalla presenza del prevenuto.
Entrambe le norme partono dal presupposto, quindi, che una indicazione generica del luogo “interdetto” all’obbligato non sia funzionale alle esigenze che si vogliono tutelare, perché non consentirebbe al prevenuto di sapere in anticipo quale comportamento è a lui richiesto.
A questa categoria è da ascrivere anche il divieto “di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa“, sia perché l’obbligato non può sapere quali siano i luoghi suddetti – peraltro normalmente destinati a variare a seconda delle esigenze e delle abitudini della persona – sia perché la misura assumerebbe una elasticità dipendente dalle decisioni (o anche dal capriccio) dell’offeso, a cui verrebbe rimesso, sostanzialmente, di stabilire il contenuto della misura. Tanto, si badi bene, anche nel caso la frequentazione di un luogo avvenga, con priorità, da parte della persona sottoposta ad indagini, con la conseguenze – a dir poco paradossale – di imporgli un facere (allontanarsi dal luogo) anche quando sia la persona offesa ad avvicinarsi ad esso.
È da condividere, pertanto, la conclusione cui è pervenuta, sul punto, la Sez. VI della Corte di legittimità, allorché ha rilevato che un provvedimento che si limiti a parlare, genericamente, di “luoghi frequentati dalla persona offesa“, oltre a “non rispettare il contenuto legale, appare strutturato in maniera del tutto generica, imponendo una condotta di non facere indeterminata rispetto ai luoghi, la cui individuazione finisce per essere di fatto rimessa alla persona offesa” (Cass., n. 26816 del 7/4/2011. In senso conforme, Sez. 5, n. 27798 del 4/4/2013).
A conclusione diversa conduce, invece, l’imposizione – pure consentita dall’art. 282-ter cod. proc. pen., dell’obbligo di “non avvicinarsi alla persona offesa“, ovvero quello di “tenere una determinata distanza dalla persona offesa“.
Come è stato rilevato, l’art. 282-ter cod. proc. pen. è stato introdotto contestualmente alla previsione del reato di “atti persecutori“, di cui all’art. 612-bis cod. pen., che ha tra le sue manifestazioni tipiche il costante pedinamento della vittima, da parte del soggetto agente, anche in luoghi nei quali la prima si trovi occasionalmente, e l’espressione di atteggiamenti intimidatori o molesti anche in assenza di contatto fisico diretto con la persona offesa e purtuttavia dalla stessa percepibili. Proprio per ovviare a questo tipo di “persecuzione” sono state previste, dal legislatore, le particolari misure del divieto di “avvicinamento” alla persona offesa, nonché quello di mantenere una determinata distanza dalla persona suddetta e il divieto di comunicazione. Il contenuto di queste misure è funzionale alla particolare tutela di cui è bisognosa la persona oggetto di attenzioni sgradite e di interferenze abusive nella sua sfera di vita personale, in quanto idonee a tenere lontano l’autore delle condotte sopra specificate.
La norma, in altre parole, viene incontro all’esigenza di consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita lavorativa e sociale in condizioni di serenità e di sicurezza, anche laddove la condotta dell’autore del reato assuma connotazioni di persistenza persecutoria slegata da particolari ambiti territoriali; con la conseguenza che è rispetto a tale esigenza che deve modellarsi il contenuto concreto di una misura la quale, non lo si dimentichi, ha comunque natura inevitabilmente coercitiva rispetto a libertà anche fondamentali dell’indagato (in questo senso si è già espressa la Sez. V della Corte, con le sentenze nn. 13568 del 16/1/2012; n. 36887 del 16/1/2013; n. 19552 del 26/3/2013).
Peraltro, il divieto di avvicinamento alla persona offesa e il divieto di comunicazione, ovvero quello di tenere una determinata distanza da lei, non hanno affatto (contrariamente al divieto di stare lontano dai “luoghi” frequentati dalla persona offesa, a meno che l’espressione non venga interpretata come divieto di stare lontano dalla persona offesa puramente e semplicemente) un contenuto generico o indeterminato, come talvolta si è sostenuto, pure in dottrina, perché rimandano ad un comportamento specifico, chiaramente individuabile: quello di non ricercare contatti, di qualsiasi natura, con la persona offesa; e quindi di non avvicinarsi fisicamente alla persona suddetta, di non rivolgersi a lei con la parola o con lo scritto, di non telefonarle, di non inviarle SMS, di non guardarla (quando lo sguardo assume la funzione di esprimere sentimenti e stati d’animo): insomma, di non fare tutto ciò che lo “stalker” è solito fare e che i soggetti appartenenti alla detta categoria comprendono benissimo.
Peraltro, la sfera di libertà del prevenuto non è affatto compressa, con le misure suddette, in maniera indefinita o eccessiva, ma solo nella misura strettamente necessaria alla tutela della vittima, poiché si risolve nel rapporto interpersonale tra due soggetti; e quindi rappresenta la misura di minima invadenza, alternativa ad altre, pure previste dall’ordinamento (anche per far fronte alle situazioni contemplate dall’art. 612.bis cod. pen.), che agiscono direttamente sulla persona e sulla sua libertà di locomozione. E non è nemmeno idonea a determinare violazioni involontarie delle prescrizioni giudiziali, rimanendo esclusi dall’ambito di rilievo penale gli eventuali, occasionali e non prevedibili incontri che non si traducano in alcun tipo di contatto molesto, dovendosi apprezzare, ai fini della valutazione del rispetto della misura, anche l’elemento soggettivo.
In definitiva, tenuto conto delle puntualizzazioni sopra esposte, corretta, e non contrastante con l’orientamento espresso dalla Sez. VI – sopra richiamato – appare la conclusione cui è giunta la Corte fin dalle prime applicazioni della norma, allorché ha affermato che l’art. 282 ter cod. proc. pen. “ha assunto una dimensione articolata in più fattispecie applicative, graduate in base alle esigenze di cautela del caso concreto”.
L’originaria indicazione dei luoghi determinati frequentati dalla persona offesa rimane invero significativa nel caso in cui le modalità della condotta criminosa non manifestino un campo d’azione che esuli dai luoghi nei quali la vittima trascorra una parte apprezzabile del proprio tempo o costituiscano punti di riferimento della propria quotidianità di vita, quali quelli indicati dall’art. 282 bis cod. proc. pen. nel luogo di lavoro o di domicilio della famiglia di provenienza. Laddove viceversa, ed è situazione come si è detto ricorrente per il reato di cui all’art. 612 bis cod. pen., la condotta oggetto della temuta reiterazione abbia i connotati della persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo in cui la stessa si trovi, è prevista la possibilità di individuare la stessa persona offesa, e non i luoghi da essa frequentati, come riferimento centrale del divieto di avvicinamento.
Ed in tal caso diviene irrilevante l’individuazione di luoghi di abituale frequentazione della vittima; dimensione essenziale della misura è invero a questo punto il divieto di avvicinamento a quest’ultima nel corso della sua vita quotidiana ovunque essa si svolga.
La predeterminazione dei luoghi di cui sopra risulterebbe del resto, nella situazione descritta, chiaramente dissonante con le finalità della misura, per come in precedenza delineate. Detta predeterminazione verrebbe di fatto a porsi come un’inammissibile limitazione del libero svolgimento della vita sociale della persona offesa, che viceversa costituisce precipuo oggetto di tutela della norma. La vittima si vedrebbe invero costretta a contenere la propria libertà di movimento nell’ambito dei luoghi indicati ovvero ad essere esposta, esorbitando dagli stessi, a quella condizione di pericolo per la propria incolumità che si presuppone essere stato riconosciuta sussistente anche al di fuori del perimetro della ricorrente frequentazione della persona offesa (Cass., n. 13568 del 16/1/2012).
È compito del giudice del merito, pertanto, stabilire, in base alle concrete connotazioni assunte dalla condotta invasiva dell’agente, stabilire se questi debba tenersi lontano da luoghi determinati – in questo caso da indicare specificamente – ovvero se debba tenersi lontano, puramente e semplicemente, dalla persona offesa; e se una siffatta prescrizione debba essere accompagnata dal divieto di comunicare, anche con mezzi tecnici, con quest’ultima.
Alla luce di tali criteri va ritenuta, nel caso di specie, eccessivamente generica la misura applicata all’imputato , allorché prescrive a quest’ultimo di non avvicinarsi “ai luoghi frequentati da persona offesa“, in quanto i luoghi – intesi come porzioni di territorio della Repubblica – vanno specificamente individuati, con conseguente annullamento dell’ordinanza.
Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza 6 febbraio 2015, n. 5664