La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza che si riporta in commento affronta la questione inerente il rigetto della richiesta di ammissione al beneficio della messa alla prova avanzata nell’interesse dell’imputato, in considerazione dei precedenti penali del reo e della fattispecie di furto pluriaggravato.
Nel caso di specie la richiesta di ammissione al beneficio della messa alla prova veniva rigettata con la considerazione che il reato contestato all’imputato richiedente fosse pluriaggravato, nonostante lo stesso non sia mai stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza.
Sul punto “effettivamente la lettera f) dell’art. 550, comma 2, C.p.P.”, in cui sono indicati una serie di reati per i quali, ai sensi dell’art. 161 bis comma 1, C.p., opera il meccanismo della sospensione del procedimento con messa alla prova, indipendentemente dalla pena per essi sancita, “ricomprende ogni circostanza aggravante prevista dall’art. 625 C.p., senza operare distinzioni tra le diverse ipotesi ivi previste“.
Il giudice di primo e secondo grado, tuttavia, giustificava il rigetto della richiesta difensiva sulla “scorta della prognosi negativa dell’astensione dell’imputato dal commettere ulteriori reati“, considerando quest’ultimo, sulla base delle precedenti condanne riportate dall’imputato e delle modalità di svolgimento dell’azione delittuosa.
Orbene ritiene il Collegio che tale assunto non sia condivisibile.
L’art. 464 quater, comma 3, C.p.P., prevede che la sospensione è disposta “quando il giudice, in base ai parametri di cui all’art. 133 del Codice penale, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati“.
Nella prospettiva seguita dai giudici territoriali sarebbe del tutto inutile la valutazione della idoneità del programma di trattamento presentato dall’imputato e, in ultima analisi, la stessa allegazione del programma in questione, quando il giudice ritenga che sia impossibile effettuare la prognosi positiva in ordine all’astensione dell’imputato dal commettere ulteriori reati.
Siffatta interpretazione, tuttavia, sembra accentuare il profilo retributivo dell’istituto, oggetto di critica da parte della dottrina, che ha evidenziato come la previsione della prognosi di non recidiva tradisca “la vocazione risocializzante degli istituti davvero riconducibili alla ristorative justice” (giustizia ripartiva), dimostrando la scelta legislativa di considerare la messa alla prova “come un beneficio elargito dallo Stato a chi, a priori, non abbisogna di un intervento punitivo più severo“.
In realtà appare del tutto arbitraria la scelta interpretativa dei giudici territoriali di sganciare il giudizio sulla prognosi di non recidiva dalla valutazione del programma di trattamento presentato dall’imputato, che nella stessa formulazione della norma concorrono insieme alla decisione finale sulla ammissione alla messa alla prova, da assumere sulla base dei parametri di cui all’art. 133 C.p.
Soccorre, nel percorso argomentativo che si propone, da un lato, l’esperienza di applicazione dell’istituto della messa alla prova minorile, in relazione al quale il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità ha individuato “nella possibilità di rieducazione e di inserimento del soggetto nella vita sociale” e “nella evoluzione della personalità verso modelli socialmente adeguati” l’orizzonte della prognosi affidata alla discrezionalità del giudice (cfr., ex plurimis, Cass, Sez. 1, n. 13370/2013; Cass., Sez. 5, n. 14035/2013; Cass., Sez. 3, n. 45451/200).
Dall’altro, i criteri elaborati in tema di concessione della probation penitenziaria, di cui all’art. 47 Reg. penit., dalla giurisprudenza di legittimità, che ha evidenziato la necessità per l’imputato di aprirsi a una rimeditazione critica sul passato, rappresentando di essere disponibile a un costruttivo reinserimento nel contesto sociale, del quale il programma di trattamento deve costituire l’efficace supporto (cfr. Cass., Sez. 1, n. 7781/2006; Cass., Sez. 1, n. 10962/99).
Appare, pertanto conforme a una interpretazione costituzionalmente orientata, che valorizzi la finalità rieducativa della pena, sancita dall’art. 27, comma 3, Cost, posta a fondamento di tutti gli istituti di “giustizia riparativa“, e alla ratio degli istituti di probation previsti nel sistema penale, affermare che il giudizio sulla prognosi di non recidiva non possa non tenere conto del piano di trattamento presentato dall’imputato.
E, in particolare, del contenuto di tale piano rispetto agli obiettivi che esso deve indicare, ai sensi dell’art. 464 bis, comma 4, lett. c), C.p.P., destinati a incidere sulla condotta dell’imputato susseguente al reato e sulle sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale, da cui il giudice deve desumere, ai sensi dell’art. 133, comma 2, C.p., la capacità a delinquere del prevenuto.
In altri termini è proprio alla luce del contenuto del piano di trattamento che va formulato il giudizio sulla prognosi di non recidiva, alla luce della tendenza dimostrata dall’imputato, attraverso il percorso rappresentato nel piano e gli impegni che si propone di assumere, a essere disponibile a un costruttivo ed efficace reinserimento nel tessuto sociale.
Del resto la giurisprudenza di legittimità, ad eccezione di un’isolata decisione di segno opposto (cfr. Cass., Sez. 4, n. 8158 del 13.2.2020), è concorde nel ritenere centrale la produzione del programma di trattamento o, quanto meno, della richiesta della sua elaborazione all’ufficio di esecuzione penale esterna, ai fini della decisione sulla ammissione alla sospensione del processo per messa alla prova (cfr, ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 12721 del 17.1.2019; Cass., Sez. 6, n. 9197 del 26.9.2019; Cass., Sez. 2, n. 34878 del 13.6.2019).
Corte di Cassazione Penale Sent. Sez. 5 n. 36895 Anno 2021