Il principio di ne bis in idem, locuzione latina il cui significato si traduce in “non due volte per la medesima cosa” che in ambito processuale penale si sostanzia nel divieto di un secondo giudizio per lo stesso fatto, se si è già formata la cosa giudicata (res iudicata penale).
Tale brocardo trova la giusta corrispondenza nell’art. 649 C.p.P., primo e secondo comma:
“L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345.
Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo”.
Ed infatti, è noto che il principio di ne bis in idem, in linea con un indirizzo consolidato delle Sezioni Unite (cfr. Cass., Sez. U, n. 34655 del 28/6/2005), non letto in modo sempre coerente dalle Sezioni semplici nel corso degli anni, vede oggi la sua regola interpretativa sancita dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 200 del 2016, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 C.p.P., per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, nella parte in cui, secondo il diritto vivente, esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale.
La Corte chiarisce, in particolare, che la Convenzione europea impone agli Stati membri di applicare il divieto di ne bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente.
Il diritto vivente, con una lettura conforme all’attuale stadio di sviluppo dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, impone di valutare, con un approccio storico-naturalistico, l’identità della condotta concreta e dell’evento, secondo le modalità con cui esso si è concretamente prodotto a causa della prima.
Su queste basi ermeneutiche, il fatto è il “medesimo” solo se riscontra la coincidenza della triade fenomenica “condotta-nesso causale-evento naturalistico“, sicché non dovrebbe esservi dubbio, ad esempio, sulla diversità dei fatti, qualora da un’unica condotta scaturisca la morte o la lesione dell’integrità fisica di una persona non considerata nel precedente giudizio, e dunque un nuovo evento in senso storico (come nell’ipotesi concreta da cui trae spunto la pronuncia della Corte costituzionale).
In altri termini, il concetto di identità del fatto non può estendersi sino a richiedere, quale presupposto per la sua sussistenza, la sola, generica identità della condotta; è invece necessario che l’interprete proceda ad analizzare tutti gli elementi costitutivi del reato ed il confronto deve essere operato tra i fatti materiali e non tra le fattispecie astratte. (Corte di Cassazione Penale, Sez. 5, sent. n. 25498/2021).