Il diritto di critica giornalistica
Quali sono i confini leciti del diritto di critica giornalistica?
Come noto, l’esimente in parola, racchiusa nell’alveo normativo dell’art. 51 cod. pen., postula, quale presupposto necessario, oltre al requisito della pertinenza, quello della verità del fatto storico attribuito al diffamato, ove tale fatto sia posto a fondamento della elaborazione critica (ex multis, soprattutto in tema di diffamazione a mezzo stampa, ma con valutazioni che possono, in linea generale, esportarsi alla critica giudiziaria in generale, cfr. Sez. 5, n. 40930 del 27/9/2013; Sez. 5, n. 8721 del 17/11/2017, dep. 2018; Sez. 5, n. 34129 del 10/5/2019).
Si è consolidato, altresì, il condivisibile principio secondo cui l’esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione, e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, sebbene essa non vieti l’utilizzo di termini che, pur se oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Sez. 5, n. 17243 del 19/2/2020; Sez. 5, n. 37397 del 24/6/2016; Sez. 5, n. 31669 del 14/4/2015; vedi da ultimo, in un’ipotesi peculiare, Sez. 5, n. 33115 del 14/10/2020).
Sul fronte della giurisprudenza europea, per quanto riguarda la critica diretta contro coloro i quali rivestano posizioni pubbliche rilevanti, come certamente può dirsi per chi espleti le funzioni di magistrato, la Corte Europea dei Diritti Umani ha posto l’accento sul fatto che i limiti della critica nei confronti dei funzionari che agiscono in qualità di personaggi pubblici nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali sono più ampi rispetto ai semplici privati cittadini (cfr., tra le altre, la sentenza Magosso e Brindani c. Italia del 16.1.2020, nonché Medlis Islamske Zajednice Bréko e altri c. Bosnia Erzegovina [GC] del 27 giugno 2017; Mariapori c. Finlandia del 6 luglio 2010).
Si è già messo in luce, nella pronuncia Sez. 5, n. 45249 del 25/10/2021, Longo, che la giurisprudenza della Corte EDU, con specifico riguardo alla diffamazione di esponenti della magistratura, interpretando il § 2 dell’art. 10 CEDU – che, tra i motivi specifici idonei a giustificare le limitazioni alla libertà di espressione, indica lo scopo di “garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario” – può dirsi orientata in modo stabile ad affermare che il potere giudiziario non è sottratto alla critica, ma che la speciale protezione dell’autorità giudiziaria, attuata mediante anche possibili limitazioni alla libertà di espressione, si giustifica per il fatto che in tal modo si concorre a tutelare la buona amministrazione della giustizia, di cui il rispetto e la fiducia del pubblico sono una condizione (cfr. Corte EDU, Sunday Times (n. 1) c. Regno Unito, 26.4.1979, § 55-56). La tutela dei giudici e dei pubblici ministeri, cioè, è necessaria, anche in considerazione del particolare dovere di riserbo, prudenza e continenza che grava su di loro (Corte EDU, Prager e Oberschlick c. Austria, 26.4.1995, § 34; Corte EDU, Sunday Times (n. 1) c. Regno Unito, 26.4.1979, § 55-56).
D’interesse è anche la pronuncia Morice c. Francia del 23 aprile 2015, in cui la Grande Chambre ha chiarito come il diritto di critica nei confronti di esponenti della magistratura corrisponde ad un interesse pubblico e gode di limiti più ampi di quello esercitabile nei confronti dei normali cittadini, purché la critica non si traduca in “attacchi gravemente lesivi e infondati“, delineando, in tal modo, le coordinate per una corretta declinazione dell’esercizio legittimo del diritto di critica nei riguardi dell’operato della magistratura, in ragione del suo rappresentare un’istituzione fondamentale dello Stato, meritevole di essere tutelata nell’immagine di imparzialità, per la necessità di assicurare la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario (per una ricostruzione in senso analogo, cfr. Sez. 5, n. 19889 del 17/2/2021; cfr. anche, per i medesimi principi, declinati con riguardo alla professione forense, il recente arrét, L.P. e Carvalho c. Portogallo del 8.10.2019: in questo caso, la Corte EDU ha ravvisato una violazione dell’art. 10 CEDU in relazione alla condanna subita da due avvocati in relazione a dichiarazioni offensive contenute nei loro scritti difensivi, affermando che le sanzioni inflitte, benché di modesto ammontare, possono determinare un c.d. chilling effect, un effetto dissuasivo e sterilizzante sulla professione forense in generale e nella difesa degli interessi dei clienti da parte degli avvocati; sul tema, in motivazione, cfr. Sez. 5, n. 34016 del 14/5/2021).
Anche la giurisprudenza della Cassazione ha dimostrato peculiare attenzione ad un bilanciamento della critica giudiziaria con i valori di tutela dell’onore dei magistrati coinvolti, bilanciamento che si delinea anche come attitudine costante a coltivare il valore del dissenso in democrazia (tra le molte pronunce, si segnalano: Sez. 5, ord. n. 5638 del 16/1/2015; Sez. 5, n. 2890 del 4/12/1998, dep. 1999; Sez. 5, n. 28661 del 9/6/2004).
E così, il limite della continenza nel diritto di critica, utile a scriminare il reato di diffamazione, è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato, sicchè il contesto nel quale la condotta si colloca, di cui pure deve tenersi conto per valutarne la portata diffamatoria, non può scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona oggetto di critica in quanto tale, travalicando la linea di demarcazione tra il dissenso espresso all’operato altrui — che deve essere ampiamente consentito in una società democratica, soprattutto nei confronti di chi
ricopra incarichi o funzioni pubblici, e, tra questi, dei magistrati – e la lesione della reputazione e dell’onore della persona attaccata. Il “dissenso”, infatti, è certamente un valore da garantire come bene primario in ogni moderna società democratica che voglia davvero dirsi tale, ma non può trascendere le idee, esorbitare dalla ricostruzione dei fatti e giungere a fondare manifestazioni espressive che diventino meri argomenti di aggressione personale di chi è portatore di una diversa opinione (in tal senso Sez. 5, n. 7995 del 9/12/2020, dep. 2021, in motivazione).
L’elaborazione ermeneutica si è sempre più affinata, dunque, nel corso degli anni, sino a giungere all’attuale stabilizzazione di un orientamento di particolare apertura nei confronti della liceità della critica giudiziaria, sulla base del principio di derivazione anche dalla giurisprudenza europea, secondo cui, in democrazia, a maggiori poteri corrispondono maggiori responsabilità e l’assoggettamento al controllo da parte dei cittadini, esercitabile anche attraverso il diritto di critica (cfr. la citata sentenza della Corte EDU Magosso e Brindani, in tema).
Pertanto, il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto – si è detto – nel modo più ampio possibile, costituendo l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale, che viene esercitata nel nome del popolo italiano da soggetti che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono di ampia autonomia ed indipendenza; ne deriva che il limite della continenza può ritenersi superato soltanto in presenza di espressioni che, in quanto inutilmente umilianti, trasmodino nella gratuita aggressione verbale del soggetto criticato (Sez. 5, n. 19960 del 30/1/2019: in applicazione del principio, la Corte ha ritenuto funzionale alla disapprovazione della condotta processuale tenuta da un magistrato inquirente la critica alla sua competenza; altrettanto emblematica il caso che ha portato a scriminare le espressioni “sprovveduto” ed “incauto” rivolte ad un magistrato: Sez. 5, n. 11662 del 6/2/2007).
La sentenza Longo del 2021 ha chiarito, da ultimo, che, “se tale ampiezza espansiva della critica consentita si riscontra sul fronte delle censure alla professionalità del magistrato, anche quando esse si manifestino in una forma espressiva aspra e sferzante, non altrettanto può dirsi qualora la critica coinvolga i prerequisiti della funzione giurisdizionale, costituiti dai caratteri di indipendenza ed autonomia, percepiti come imprescindibili attribuzioni dell’essere appartenenti all’ordine giudiziario, e coinvolga un giudizio di valore e di stima sulla persona del magistrato, piuttosto che sulle sue capacità professionali. Così, è stato stabilito che non costituisce esercizio legittimo del diritto di critica la gratuita attribuzione di mala fede a chi conduce indagini giudiziarie, presentando come risultato di complotti o di strategie politiche l’opera del pubblico ministero, perché in tal caso non si esprime un dissenso, più o meno fondato e motivato, sulle scelte investigative, ma si afferma un fatto che deve essere rigorosamente provato e si finisce per realizzare un attacco alla “stima” di cui gode il magistrato (Sez. 5, n. 28661 del 2004 cit.; cfr. anche Sez. 5, ord. n. 5638 del 16/1/2015 e Sez. 5, n. 41671 del 7/7/2016); ed egualmente è a dirsi se le accuse sono di strumentalizzazione della funzione (Sez. F„ n. 29453 del E/8/2006) o si trasmoda dalla critica aspra al dileggio (Sez. 5, n. 2066 del 11/11/2008, dep. 2009)“.
Ancor più esplicitamente si è affermato che, in tema di diffamazione e diritto di critica giudiziaria, non è scriminata la condotta che attribuisce parzialità per ragioni politiche ad un soggetto che esercita la funzione giudiziaria in quanto intrinsecamente offensiva, sempre che, ovviamente, non vi sia prova della verità della parzialità politica attribuita, intesa come verità storica del fatto specificamente denunciato (Sez. 5, n. 10631 del 12/2/2009).
Dunque, qualora vengano in gioco accuse di negligenza e incapacità del magistrato, la critica giudiziaria può assumere una connotazione anche molto “pesante“, aspra e sferzante; laddove, invece, detta critica si incentri su accuse di partigianeria politica e, quindi, attribuisca al magistrato un deficit di imparzialità ed indipendenza.
Tali attribuzioni, non a caso, sono state definite dal CSM “imprescindibili condizioni per un corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali” (insieme all’equilibrio, cfr. la Circolare n. 20681 del 8.10.2007 e successive modifiche, in tema di valutazione di professionalità, nonchè la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ritiene tali caratteri delle precondizioni, consustanziali all’esercizio della funzione giurisdizionale: CDS, Sez. 5, n. 5309 del 29 luglio 2019), sicchè, in caso di loro critica, l’unica possibilità di ritenere la condotta diffamatoria scriminata deve essere indicata nella precisa verità storica del fatto, non potendo il giudizio di valore, di cui pure in astratto può nutrirsi la critica, avere ingresso in tal caso.
La citata sentenza n. 41671 del 2016, ad esempio, in una fattispecie che presenta alcune analogie significative con quella all’esame del Collegio, ha ritenuto intrinsecamente offensive le dichiarazioni fatte dall’imputato, di professione avvocato, ad un incontro pubblico su fatti di grave allarme sociale, secondo le quali il pubblico ministero competente “voleva chiudere l’indagine in un sol modo, prima ancora di cominciarla“, conducendo una “pseudo-indagine“, in quanto intese ad attribuire al medesimo l’esercizio del proprio ruolo professionale sulla scorta di un’idea preconcetta (tuttavia, con qualche accento più aperto in ambito di critica all’atteggiamento personale del magistrato, cfr. Sez. 5, n. 34432 del 5/6/2007, che ha ritenuto sussistente l’esimente del diritto di critica in relazione ad un’accusa di “subalternità psicologica” nei confronti della famiglia dell’imputato ricca e potente, avanzata da un giornalista nei confronti di un magistrato del pubblico ministero, poiché, nel caso di specie, l’affermazione costituiva argomento atto a rinvenire una plausibile spiegazione ad una ritenuta grave ingiustizia e non già a denigrare la persona del requirente).
Ed è quasi superfluo aggiungere che il contesto e le circostanze della condotta diffamatoria, così come le modalità espressive con le quali essa si è realizzata, costituiscono fattori concreti che distinguono fattispecie come quella sottoposta all’esame del Collegio da altre, più frequenti ipotesi, che, più di sovente in ambito di libertà di stampa e diritto all’informazione, coinvolgono questioni relative alle opinioni politiche dei magistrati, singolarmente o come gruppi o in quanto categoria; come è stato già efficacemente sostenuto, infatti, qualora si rilevi la prevalenza dell’interesse pubblico all’informazione, niente di ciò che il magistrato fa o dice anche in sede privata può dirsi indifferente alla pubblica opinione, quando le cose dette o fatte siano idonee a valere come indici di valutazione rispetto all’esercizio delle funzioni, rientrando la puntuale e corretta applicazione dell’attività giudiziaria nell’interesse della collettività (Sez. 5, n. 10151 del 23/4/1986).
Corte di Cassazione Penale sentenza Sez. 5 n. 44384 del 2022