Il giudizio di separazione consensuale e quello di divorzio su domanda congiunta ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 16, pur presentando innegabili diversità sul piano della disciplina, si presentano strettamente connessi l’uno all’altro sul piano dogmatico. Ed invero, ad accomunare le due fattispecie è certamente la connotazione presente in entrambe, dell’essere finalizzate ad ottenere mediante il consenso dei coniugi, piuttosto che con la pronuncia costitutiva del giudice, le divisate modificazioni dello status coniugale, con le conseguenti ricadute sull’affidamento ed il mantenimento della prole, ove esistente, e sui profili economici concernenti i rapporti tra i coniugi stessi.
E tuttavia, è innegabile la sussistenza di diverse differenza tra i due istituti sul piano della rispettiva disciplina giuridica.
Una prima differenza tra il giudizio di separazione consensuale e quello di divorzio su domanda congiunta è ravvisabile, invero, nel fatto che, in quest’ultima fattispecie, il procedimento non termina con l’omologazione da parte del Tribunale, bensì con una sentenza emessa all’esito dell’audizione dei coniugi, e con la quale il collegio giudicante è tenuto a verificare la sussistenza dei presupposti di legge – in particolare se la comunione tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita – ed a verificare “la rispondenza delle condizioni all’interesse dei figli”. La mancata corrispondenza a tale interesse comporterà l’apertura della procedura contenziosa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, comma 8 (art. 4, comma 16).
Ed è questa una seconda differenza di regime giuridico con la separazione consensuale, nella quale – qualora l’accordo dei coniugi relativamente all’affidamento ed al mantenimento dei figli sia contrario agli interessi di questi ultimi, il Tribunale – nel caso in cui le modifiche proposte non siano state idoneamente eseguite – “può rifiutare allo stato l’omologazione” (art. 158 c.c., comma 2).
La dottrina che si è occupata del procedimento di divorzio congiunto è pervenuta a conclusioni non del tutto univoche, anche se tra gli autori più recenti è dato registrare una maggiore uniformità di vedute.
Secondo una prima opinione, il procedimento disciplinato dalla L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 16, condotto in Camera di consiglio e senza istruttoria, assume connotazioni particolari, ma è pur sempre un procedimento contenzioso e la decisione ha la forma e la sostanza della sentenza. Il tribunale non si limita ad omologare il consenso dei coniugi, perché la presentazione della domanda congiunta costituisce il presupposto per la trattazione della causa secondo un rito “abbreviato”, ma devono pur sempre essere accertate le condizioni per pronunciare il divorzio, proprio come avviene nei giudizi contenziosi. Nella medesima prospettiva, si è pertanto sostenuto che la sentenza che conclude siffatto procedimento presenta una duplice natura, ossia di accertamento costitutivo, quanto all’esame dei presupposti di legge ed alla pronuncia di divorzio, e dichiarativa dell’efficacia delle condizioni volute dalle parti.
Altra dottrina, senza peraltro porsi il problema della valenza del verbale di comparizione dei coniugi che riporti le condizioni concordate dai coniugi, ritiene che il ricorso a firma congiunta sia un qualcosa in meno dell’accordo in sede di separazione consensuale, poiché non avrebbe alcun contenuto negoziale e si risolverebbe semplicemente in una domanda comune rivolta al Tribunale, nell’aspirazione ad ottenere un certo provvedimento, avente un contenuto concordemente divisato dalle parti.
Su posizione diametralmente opposta sembra, tuttavia, ormai collocarsi la dottrina di gran lunga prevalente, secondo la quale l’accordo posto a base di tale procedimento avrebbe chiara natura negoziale, rilevando il parallelismo e la connotazione causale identici all’accordo concluso tra coniugi in sede di separazione consensuale, dalla quale si distingue solo per il preliminare accertamento dei requisiti di legge per dichiarare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Secondo tale tesi, a prescindere dalla forma del provvedimento finale, il divorzio su domanda congiunta non costituisce un giudizio contenzioso, ma un procedimento di giurisdizione volontaria, nel quale gli accordi delle parti non possono essere sindacati dal giudice, se non per quanto riguarda le statuizioni riguardanti i figli minori, ferma restando la decisione sulla sussistenza dei presupposti per la pronuncia di divorzio. Al di fuori di tale profilo, l’attività del Tribunale è ritenuta sostanzialmente vincolata, tant’é che gli effetti patrimoniali del divorzio vengono ricondotti all’accordo delle parti, riportati nel verbale di comparizione davanti al collegio, anziché alla determinazione del giudice, che è assimilata a una mera omologa all’esito di un procedimento di controllo sul rispetto delle norme inderogabili dell’ordinamento vigente. Ciò che rileva – si ribadisce è che, in caso di divorzio su domanda congiunta, la fonte della regolamentazione dei rapporti tra gli ex coniugi divorziati va ravvisata nell’accordo delle parti e non nella sentenza.
La giurisprudenza di legittimità ha recepito in parte ciascuna delle diverse elaborazioni della dottrina, muovendo da un dato inequivocabile di diritto positivo, costituito dal disposto della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 16, secondo cui il Tribunale decide con sentenza verificando esclusivamente “la sussistenza dei presupposti di legge” e valutando “la rispondenza delle condizioni all’interesse dei figli”.
In tal senso – accomunando le due fattispecie, che al di là della diversità di disciplina presentano l’evidenziato tratto comune della consensualità – si è affermato che, in caso di separazione consensuale o di divorzio congiunto (o su conclusioni conformi), la sentenza incide sul vincolo matrimoniale, ma sull’accordo tra i coniugi. Essa realizza pertanto – in funzione di tutela dei diritti indisponibili del soggetto più debole e dei figli – un controllo solo esterno su tale accordo, attesa la natura negoziale dello stesso, da affermarsi in ragione dell’ormai avvenuto superamento della concezione che ritiene la preminenza di un interesse superiore e trascendente della famiglia rispetto alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei singoli componenti. Ne consegue che i coniugi ben possono concordare, con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare, quali, in particolare, l’affidamento dei figli e le modalità di visita dei genitori (Cass., 20/08/2014, n. 18066; Cass., 13/02/2018, n. 10463).
Nel medesimo ordine di idee si pone la successiva pronuncia, con la quale la Corte di Cassazione, affrontando un caso di revoca unilaterale del consenso da parte di uno dei coniugi, ha stabilito che il Tribunale deve comunque provvedere all’accertamento dei presupposti per la pronuncia richiesta, per poi procedere, in caso di esito positivo della verifica, all’esame delle condizioni concordate dai coniugi, valutandone esclusivamente la conformità a norme inderogabili ed agli interessi dei figli minori.
Infatti, a differenza di quanto avviene nel procedimento di separazione consensuale, la domanda congiunta di divorzio dà luogo ad un procedimento che si conclude con una sentenza costitutiva, nell’ambito del quale l’accordo sotteso alla relativa domanda riveste natura meramente ricognitiva, con riferimento alla sussistenza dei presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale della L. n. 898 del 1970, ex art. 3, mentre ha valore negoziale per quanto concerne la prole ed i rapporti economici. Il che consente al tribunale di intervenire su tali accordi soltanto nel caso in cui essi risultino contrari a norme inderogabili, con l’adozione di provvedimenti temporanei ed urgenti e la prosecuzione del giudizio nelle forme contenziose (Cass., 24/07/2018, n. 19540).
E’ del tutto evidente, pertanto, che – ferma la natura costituiva della sentenza che definisce il procedimento di divorzio a domanda congiunta, con la peculiarità che siffatta pronuncia è emessa sull’accordo delle parti, sia pure avente natura ricognitiva dei presupposti per la pronuncia sullo status, che il Tribunale ha comunque il dovere di verificare – la sentenza in parola viene a rivestire un valore meramente dichiarativo, o di presa d’atto, invece, quanto alle condizioni “inerenti alla prole ed ai rapporti economici”, che la domanda congiunta di divorzio deve “compiutamente” indicare. Fermo il limite invalicabile costituito dalla necessaria mancanza di un contrasto tra gli accordi patrimoniali e norme inderogabili, e dal fatto che gli accordi non collidano con l’interesse dei figli, in special modo se minori.
La pacifica – secondo tutta la giurisprudenza di legittimità succitata – natura negoziale degli accordi dei coniugi, equiparabili a pattuizioni atipiche ex art. 1322 c.c., comma 2, comporta pertanto che – al di fuori delle specifiche ipotesi succitate – nessun sindacato può esercitare il giudice del divorzio sulle pattuizione stipulate dalle parti, e riprodotte nel verbale di separazione. Come del resto – sul piano generale – il giudice non può sindacare qualsiasi accordo di natura contrattuale privato, che corrisponda ad una fattispecie tipica, libere essendo le parti di determinarne liberamente il contenuto (art. 1322 c.c., comma 1), fermo esclusivamente il rispetto dei limiti imposti dalla legge a presidio della liceità delle contrattazioni private e, se si tratta di pattuizioni atipiche, sempre che l’accordo sia anche meritevole di tutela secondo l’ordinamento (art. 1322 c.c., comma 2).
Corte di Cassazione Sezioni Unite 29 luglio 2021 n. 21761