L'”Esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali” ai sensi dell’articolo 52 Codice dei beni culturali e del paesaggio prevede che “Con le deliberazioni previste dalla normativa in materia di riforma della disciplina relativa al settore del commercio, i comuni, sentito il soprintendente, individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l’esercizio del commercio… i comuni, sentito il soprintendente, individuano altresì i locali, a chiunque appartenenti, nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7 bis, al fine di assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della libertà di iniziativa economica di cui all’articolo 41 della Costituzione. Al fine di assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonché delle aree a essi contermini, i competenti uffici territoriali del Ministero, d’intesa con la regione e i Comuni, adottano apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti senza posteggio, nonché, ove se ne riscontri la necessità, l’uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico“.
Orbene, dal contenuto del modificato art. 52 del codice dei beni culturali, emerge con chiarezza il fine (esplicitato dal legislatore statale ed attuato mediante specifica regolamentazione dell’«esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali») di assicurare la tutela, la salvaguardia ed il decoro, da un lato, dei «locali, a chiunque appartenenti, nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7-bis» (art. 52, comma 1-bis); e, dall’altro lato, «dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonché delle aree a essi contermini», attraverso «apposite determinazioni», che i competenti uffici territoriali del Ministero, d’intesa con i Comuni, adottano «volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione» (art. 52, comma 1-ter).
Risulta, pertanto, evidente come alle specifiche esigenze di “tutela” si accompagnino contestualmente anche quelle di “valorizzazione” dei beni culturali de quibus, comprensive della attività di “promozione” del patrimonio culturale, ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Ciò premesso, va (sotto altro profilo) riaffermato come la tutela dei beni culturali, inclusa nel secondo comma dell’art. 117 Cost., sotto la lettera s), tra quelle di competenza legislativa esclusiva dello Stato, sia materia dotata di un proprio àmbito, ma nel contempo contenente l’indicazione di una finalità da perseguire in ogni campo in cui possano venire in rilievo beni culturali. Essa costituisce quindi una materia-attività (sentenza n. 26 del 2004), in cui assume pregnante rilievo il profilo teleologico della disciplina (sentenza n. 232 del 2005).
D’altro canto, è però significativo come lo stesso art. 1 del codice dei beni culturali, nel dettare i princìpi della relativa disciplina, sancisca (al comma 2) che «la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura». Ciò implica, per un verso, il riferimento a un “patrimonio” intrinsecamente comune, non suscettibile di arbitrarie o improponibili frantumazioni ma, nello stesso tempo, naturalmente esposto alla molteplicità e al mutamento e, perciò stesso, affidato, senza specificazioni, alle cure della “Repubblica”; per altro verso, una sorta di ideale contiguità, nei limiti consentiti, fra le distinte funzioni di “tutela” e di “valorizzazione” di questo “patrimonio” medesimo, ciascuna identificata nel proprio àmbito competenziale fissato dall’art. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost. (sentenza n. 194 del 2013).
All’interno di questo sistema, appare indubbio che “tutela” e “valorizzazione” esprimano – per esplicito dettato costituzionale e per disposizione del codice dei beni culturali (artt. 3 e 6, secondo anche quanto riconosciuto sin dalle sentenze n. 26 e n. 9 del 2004) – aree di intervento diversificate. E che, rispetto ad esse, è necessario che restino inequivocabilmente attribuiti allo Stato, ai fini della tutela, la disciplina e l’esercizio unitario delle funzioni destinate alla individuazione dei beni costituenti il patrimonio culturale nonché alla loro protezione e conservazione; mentre alle Regioni, ai fini della valorizzazione, spettino la disciplina e l’esercizio delle funzioni dirette alla migliore conoscenza, utilizzazione e fruizione di quel patrimonio (sentenza n. 194 del 2013). Tuttavia, nonostante tale diversificazione, l’ontologica e teleologica contiguità delle suddette aree determina, nella naturale dinamica della produzione legislativa, la possibilità che alla predisposizione di strumenti concreti di tutela del patrimonio culturale si accompagnino contestualmente, quali naturali appendici, anche interventi diretti alla valorizzazione dello stesso; ciò comportando una situazione di concreto concorso della competenza esclusiva dello Stato con quella concorrente dello Stato e delle Regioni.
Inoltre, il legislatore statale – sempre per i menzionati fini di tutela e valorizzazione – ha fatto ricorso anche ad ulteriori previsioni riguardanti le concrete modalità di individuazione dei locali di artigianato e commercio tradizionali da parte dei Comuni, sentito il sovrintendente, ovvero l’adozione da parte dei competenti uffici territoriali del Ministero, d’intesa con i Comuni, di apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti senza posteggio, nonché il rilascio di concessioni di occupazione di suolo pubblico; previsioni tutte che incidono direttamente sulla regolamentazione di attività riconducibili alle materie del «commercio» ed «artigianato», appartenenti alla competenza residuale delle Regioni (sentenze n. 49 del 2014, n. 251 del 2013 e n. 203 del 2012). Rispetto alle quali (con specifico riguardo alla attività del commercio in forma itinerante) la giurisprudenza costituzionale ha sottolineato come vada ricompresa anche la possibilità per il legislatore regionale di disciplinarne nel concreto lo svolgimento, nonché quella di vietarne l’esercizio in ragione della particolare situazione di talune aree metropolitane, di modo che l’esercizio del commercio stesso avvenga entro i limiti qualificati invalicabili della tutela dei beni ambientali e culturali, allo scopo di garantire, indirettamente, attraverso norme che ne salvaguardino la ordinata fruizione, la valorizzazione dei maggiori centri storici delle città d’arte a forte vocazione turistica (sentenza n. 247 del 2010).
Corte Costituzionale sentenza n. 140 del 2015