Diversa qualificazione del fatto e sospensione del processo con messa alla prova
La Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla preclusione del giudice di ammettere l’imputato alla sospensione del processo con messa alla prova, anche nell’ipotesi in cui questi ne abbia formulato richiesta entro i termini di cui all’art. 464-bis cod. proc. pen., ma tale richiesta sia stata respinta in ragione dell’incompatibilità del beneficio con i limiti di pena previsti dalla norma incriminatrice ai sensi della quale il pubblico ministero aveva qualificato il fatto contestatogli, incompatibilità – peraltro – successivamente venuta meno in seguito alla diversa qualificazione del fatto compiuta dal giudice ai sensi dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., in esito al giudizio abbreviato.
La giurisprudenza di legittimità ha, anzitutto, ripetutamente affermato che, in caso di richiesta di sospensione del processo con messa alla prova presentata dall’imputato entro i termini previsti dall’art. 464-bis cod. proc. pen., il giudice è tenuto a verificare la correttezza della qualificazione giuridica attribuita al fatto dall’accusa ed eventualmente a modificarla, ove non la ritenga corretta, traendone le conseguenze sul piano della ricorrenza del beneficio in parola (Cass., sentenze 8 maggio-31 luglio 2018, n. 36752 e 20 ottobre 2015-3 febbraio 2016, n. 4527).
Recenti pronunce della Corte di Cassazione hanno, inoltre, ritenuto che la celebrazione del giudizio di primo grado nelle forme del rito abbreviato non precluda all’imputato la possibilità di dedurre, in sede di appello, il carattere ingiustificato del diniego, da parte del giudice di primo grado, della richiesta di sospensione con messa alla prova (Cass., sentenza 18 settembre-8 ottobre 2018, n. 44888; sentenza 15 febbraio-2 luglio 2018, n. 29622). Tale recente orientamento non è, invero, incontrastato, altre pronunce avendo invece ritenuto la sussistenza di una tale preclusione, essenzialmente sulla base dell’argomento dell’alternatività tra il beneficio in parola e il rito abbreviato; di talché, una volta che l’imputato abbia formulato, dopo il rigetto della richiesta di sospensione del processo con messa alla prova, una domanda di giudizio abbreviato, egli non potrebbe più riproporre la prima richiesta, secondo il principio “electa una via, non datur recursum ad alteram” (Cass., sentenza 3 luglio-27 settembre 2018, n. 42469; sentenza 28 marzo-9 maggio 2017, n. 22545; sentenza 19 ottobre 2016-30 gennaio 2017, n. 4184).
A tale argomento è stato, tuttavia, plausibilmente replicato che la domanda di giudizio abbreviato conseguente al rigetto della richiesta, formulata in via principale, di ammissione alla sospensione del processo con messa alla prova previa riqualificazione del fatto contestato deve necessariamente intendersi come presentata con riserva; e più in particolare con riserva di gravame, in sede di appello, contro il provvedimento di diniego del beneficio già richiesto in via principale, che non può pertanto intendersi come implicitamente rinunciato all’atto della richiesta del rito abbreviato (in questo senso, le sopra citate Cass., n. 44888 e n. 29622 del 2018).
Se dunque, in base al menzionato recente orientamento della Corte di cassazione, il giudice di appello investito dell’impugnazione contro una sentenza di condanna resa in sede di giudizio abbreviato può ammettere l’imputato alla sospensione del processo con messa alla prova, allorché ritenga ingiustificato il diniego opposto dal giudice di primo grado a tale richiesta, a fortiori una tale possibilità dovrà essere riconosciuta allo stesso giudice di primo grado, allorché – in esito al giudizio – riscontri che il proprio precedente diniego era ingiustificato, sulla base della riqualificazione giuridica del fatto contestato cui lo abilita l’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., quando l’imputato abbia dal canto suo richiesto il beneficio entro i termini indicati dall’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen.
Una tale soluzione risponde a ovvie ragioni di economia processuale, e segnatamente al fine di evitare la celebrazione di un giudizio in grado di appello finalizzato esclusivamente a consentire all’imputato di conseguire un risultato che ben potrebbe essergli assicurato dal giudice di primo grado, previa semplice revoca della precedente ordinanza di rigetto della richiesta di sospensione del processo con messa alla prova.
La conclusione appena raggiunta non solo non trova alcun ostacolo nel tenore letterale delle disposizioni censurate, ma appare altresì l’unica in grado di assicurare un risultato ermeneutico compatibile con i parametri costituzionali invocati dal rimettente.
La Corte ha già affermato, in una con la giurisprudenza della Corte di cassazione (sezioni unite penali, sentenza 31 marzo-1° settembre 2016, n. 36272), che lo speciale procedimento di sospensione del processo con messa alla prova costituisce un vero e proprio rito alternativo (sentenze n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015), in grado di assicurare significativi benefici in termini sanzionatori all’imputato in cambio – tra l’altro – di una sua rinuncia a esercitare nella loro piena estensione i propri diritti di difesa in un processo ordinario.
Coerentemente con l’affermazione, risalente a epoca immediatamente successiva all’introduzione del vigente codice di procedura penale, secondo cui «la richiesta di riti alternativi “costituisce […] una modalità, tra le più qualificanti (sentenza n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)” (sentenza n. 237 del 2012)» (sentenza n. 141 del 2018), la Corte ha più volte dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni del codice di rito nella parte in cui non consentivano all’imputato di essere rimesso in termini al fine di esercitare la propria eventuale opzione per un rito alternativo allorché, in esito al giudizio celebrato con rito ordinario, gli venisse contestato un fatto nuovo o un reato concorrente che risultava già dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, e che pertanto il pubblico ministero ben avrebbe potuto contestargli già in quel momento, sì da porlo in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa in merito alla scelta del rito (in particolare, sentenza n. 265 del 1994, in relazione al patteggiamento, e sentenza n. 333 del 2009, in relazione al rito abbreviato).
Una situazione a ben vedere non dissimile è quella che ricorre nel caso di specie, in cui l’imputato si vedrebbe negata la possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa, sotto lo specifico profilo della scelta di un rito alternativo e dei connessi benefici in termini sanzionatori, in conseguenza dell’erroneo apprezzamento da parte del pubblico ministero – al momento della formulazione dell’imputazione – circa la qualificazione giuridica del fatto contestatogli, laddove tale erronea qualificazione, pur immediatamente contestata dalla difesa, sia stata rilevata dal giudice soltanto in esito al giudizio.
Un tale pregiudizio al diritto di difesa – che si risolverebbe in un evidente vulnus dell’art. 24, secondo comma, Cost., oltre che dello stesso principio di eguaglianza – non è però univocamente imposto dalle disposizioni censurate dal rimettente, che ben si prestano a essere interpretate in modo da evitare quel risultato; sì da consentire, in particolare, al giudice di ammettere l’imputato al rito alternativo che egli aveva a suo tempo richiesto entro i termini di legge, e di garantirgli in tal modo i benefici sanzionatori connessi a tale rito, assicurando che l’errore compiuto dalla pubblica accusa non si risolva in un irreparabile pregiudizio a suo danno. E ciò indipendentemente dalla possibilità di conseguire o meno, nel caso concreto, un effetto deflattivo sul carico della giustizia penale, a cui tra l’altro mirano i procedimenti speciali in parola.
Corte Costituzionale sentenza 131/2019