In materia di adozione di maggiorenne, l’art. 291 C.c. “L’adozione è permessa alle persone che non hanno discendenti legittimi, che hanno compiuto gli anni trentacinque e che superano almeno di diciotto anni l’età di coloro che essi intendono adottare” stabilisce esplicitamente il limite del divario minimo d’età tra adottante ed adottato imposto in 18 anni, creando, in primis, una disparità di disciplina tra l’adozione di minori e di maggiorenni, oltre ad una implicita violazione degli artt. 2, 29 e 30 Cost.
La Corte Costituzionale è intervenuta con due pronunce sulla questione della disparità di disciplina tra l’adozione di minori e di maggiorenne, in ordine all’art. 291 C.c. che solo per quest’ultima adozione contempla il limite della differenza d’età di 18 anni tra adottante ad adottato.
In particolare, con la sentenza n. 89 del 1993, la Corte Costituzionale ritenne infondata la questione in relazione agli artt. 2, 29 e 30 Cost., in quanto essa era stata formulata sull’erronea premessa della ritenuta identità di situazioni nelle quali verserebbero gli adottandi, nel caso di adozione del figlio del coniuge dell’adottante, tanto che si tratti di adozione ordinaria quanto che si tratti di adozione di minori.
La Corte Costituzionale ritenne che questa premessa non era esatta, in ragione della differente disciplina che caratterizza in modo diverso, per struttura, per funzione e per ampiezza dei poteri attribuiti al giudice, l’adozione di minori rispetto all’adozione di persone di maggiore età.
Con la sentenza n. 500 del 2000, la Corte Costituzionale si è di nuovo pronunciata sulla medesima questione riguardo agli artt. 2, 3, 29, primo comma, e 30, terzo comma, Cost., con la seguente motivazione: “Il giudice rimettente, denunciando una ingiustificata disparità di trattamento nella disciplina del divario minimo di età che deve intercorrere tra l’adottante e l’adottando maggiorenne, requisito che ritiene non superabile mediante una diversa interpretazione del sistema normativa pur rimessa al giudice comune nell’applicazione della legge, indica quale termine di comparazione la regola prevista per l’adozione di minori, sul presupposto che le situazioni siano identiche quando l’adozione riguardi il figlio del coniuge dell’adottante. Questa premessa è stata già ritenuta inesatta (sentenza n. 89 del 1993), giacché l’adozione ordinaria ha struttura, funzione ed effetti diversi rispetto a quelli che caratterizzano l’adozione dei minori. Quest’ultima ha come essenziale obiettivo l’interesse del minore ad un ambiente familiare stabile ed armonioso, nel quale si possa sviluppare la sua personalità, in un equilibrato contesto affettivo ed educativo che ha come riferimento idonei genitori adottivi. L’adozione di minori è, inoltre, caratterizzata dall’inserimento nella famiglia di definitiva accoglienza e dal rapporto con i genitori adottivi, i quali, assumendo la responsabilità educativa del minore adottato, divengono titolari dei poteri e dei doveri che caratterizzano la posizione dei genitori nei confronti dei figli. Ciò implica il pieno inserimento del minore nella comunità familiare adottiva e l’obbligo dell’adottante di mantenere, istruire ed educare l’adottato così come è previsto per i figli dall’art., 147 C.c. (richiamato dall’art. 48 della Legge n. 184 del 1983). L’adozione di persone maggiori di età si caratterizza in modo diverso. Non implica necessariamente l’instaurarsi o il permanere della convivenza familiare e non determina la soggezione alla potestà del genitore adottivo, che non assume l’obbligo di mantenere, istruire ed educare l’adottato. Non mancano, dunque, differenze tra i due istituti idonee a giustificare una diversità di disciplina che consenta solo per l’adozione di minori il superamento del divario di età ordinariamente richiesto tra adottante e adottato, in ragione del raccordo tra l’unità familiare e l’ineliminabile momento formativo ed educativo che caratterizza lo sviluppo della personalità dei minore in una famiglia e che solo quella famiglia può assicurare (sentenza n.89 del 1993). Rimane invece rimessa alla valutazione del legislatore la ponderazione di nuove esigenze sociali, che eventualmente sollecitino una innovazione in questa disciplina“.
Ora, la norma dell’art. 291 C.c., nel richiedere la differenza di 18 anni tra adottante ed adottato appare una evidente ingiusta limitazione e compressione dell’istituto dell’adozione di maggiorenni, nell’accezione e configurazione sociologica assunta dall’istituto negli ultimi decenni, in cui, come è indiscusso sia in dottrina che nella giurisprudenza, ha perso la sua originaria connotazione diretta ad assicurare all’adottante la continuità della sua casata e del suo patrimonio, per assumere la funzione di riconoscimento giuridico di una relazione sociale, affettiva ed identitaria, nonché di una storia personale, di adottante e adottando, con la finalità di strumento volto a consentire la formazione di famiglie tra soggetti che, seppur maggiorenni, sono tra loro legati da saldi vincoli personali, morali e civili.
In sostanza, l’istituto ha perso la sua originaria natura di strumento volto a tutelare l’adottante per assumere una valenza solidaristica che, seppure distinta da quella inerente all’adozione di minori, non è immeritevole di tutela.
In tale mutato contesto sociale, il suddetto limite di 18 anni appare un ostacolo rilevante ed ingiustificato all’adozione dei maggiorenni, un’indebita ed anacronistica ingerenza dello Stato nell’assetto familiare in contrasto con l’art. 8 Cedu, interpretato nella sua accezione più ampia riguardo ai principi del rispetto della vita familiare e privata.
Infatti, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha più volte affermato che, al di là della protezione contro le ingerenze arbitrarie, l’articolo 8 pone a carico dello Stato degli obblighi positivi dl rispetto effettivo della vita familiare. In tal modo, laddove è accertata l’esistenza di un legame familiare, lo Stato deve in linea di principio agire in modo tale da permettere a tale legame di svilupparsi (Sentenza CEDU del 13.10.15, su ricorso n.52557/14).
Al riguardo, è significativo l’orientamento innovatore adottato dalla Corte di legittimità (Cass., n. 354/99), e seguito anche dalla giurisprudenza di merito, la quale ha ritenuto che l’art. 291 C.c., correttamente interpretato, esprima il seguente principio: “con riguardo all’adozione di prole del coniuge dell’adottante, nella ipotesi in cui uno dei figli sia minore, l’altro sia divenuto di recente maggiorenne, al fine di non compromettere la realizzazione del valore etico – sociale della unità familiare, garantito dall’art. 30, primo e terzo comma, della Costituzione, va riconosciuto ad entrambi, in quanto provenienti dalla stessa famiglia, il diritto di potersi inserire nel nuovo nucleo familiare del quale fa parte il comune genitore. Pertanto, in tale ipotesi, la disciplina dell’adozione del maggiorenne deve essere attratta nel regime già vigente – ai sensi dell’art.44, primo comma, lett. b), e quinto comma, della legge n. 184 del 1983, come modificato per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 44 del 1990 – per l’adozione del figlio minore del coniuge dell’adottante, che riconosce al giudice il potere di accordare, previo attento esame delle circostanze del caso, una ragionevole riduzione del prescritto divario minimo di età tra adottante e adottato, sempre che la differenza di età tra gli stessi rimanga nell’ambito della imitatio naturae“.
Tale pronuncia, sebbene emessa in una causa il cui oggetto era l’adozione congiunta di un minorenne e di un maggiorenne, entrambi figli del coniuge dell’adottante, esprime un principio più generale, applicabile per analogia anche nella fattispecie, venendo in rilievo la medesima ratio, afferente alla tutela dell’unità familiare, garantita dall’art. 30 Cost. e dall’art. 8 CEDU, che giustifica il potere discrezionale del giudice di derogare al rigido disposto dell’art. 291 C.c. attraverso una ragionevole riduzione del divario di 18 anni, considerate le circostanze del singolo caso in esame.
Può dunque affermarsi che si sia formato un diritto vivente che legittima un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 291 C.c., che tenga conto anche della giurisprudenza unionale secondo cui l’accezione dell’endiadi “vita privata e familiare“, di cui all’art. 8 CEDU, è intesa in senso ampio, comprensiva di ogni espressione della personalità e dignità della persona.
Al riguardo, se è vero che l’interprete non può dare alle parole un significato quale che sia, un particolare rilievo va attribuito al termine “connessione” per ricavare già dal primo comma dell’art. 12 delle preleggi un’indicazione a favore dell’interpretazione sistematica, facendo riferimento al contesto in cui le locuzioni si trovano e non limitandolo esclusivamente alla legge nella quale sono inserite ma estendendolo all’intero ordinamento giuridico in vigore. Peraltro, la stessa “intenzione del legislatore“, cui il predetto art. 12 attribuisce rilievo ai fini dell’interpretazione, è stata prevalentemente intesa in senso oggettivo, imponendo la ricerca di un significato conforme alla ratio legis o meglio alla ratio luris.
A venire in rilievo è piuttosto il canone della coerenza con l’intero sistema normativo, che trova implicita conferma nel comma 2 dell’art. 12 (per la via dell’evocazione dell’analogia legis e dell’analogia iuris come strumenti per colmare le lacune) e che dovrebbe già guidare l’interprete nella ricerca del significato “conforme allo spirito del tempo e della società per cui la norma è destinata a valere“.
Può altresì affermarsi che il giudice può allontanarsi dal significato che sembrerebbe più immediatamente riconducibile al testo anche per prevenire l’antinomia con il diritto euro-unitario e costituzionale e dunque evitare la formale disapplicazione della norma in questione.
Tale interpretazione costituzionalmente orientata consente, ancora, di rendere l’art. 291 C.c. compatibile con l’art. 2 Cost., atteso che il divario d’età di 18 anni impedirebbe all’adottato di esercitare appieno i suoi inalienabili diritti alla formazione di un formale nucleo familiare, sulla base di una formazione sociale di fatto ormai consolidatasi nel tempo e caratterizzata da una affectio non dissimile da quella caratterizzante la famiglia fondata sul matrimonio, nonché con l’art. 3 rimuovendo una ormai irragionevole disparità di trattamento tra l’adottato maggiorenne che abbia con l’adottante una differenza d’età non inferiore ai 18 anni e l’adottante che invece presenti una differenza d’età marginalmente inferiore al tetto legale, considerata la diversa ratio che ispira l’istituto rispetto a quella che mosse il legislatore del codice civile.
Per quanto esposto può essere formulato il seguente principio di diritto:
“in materia di adozione di maggiorenne, il giudice, nell’applicare la norma che contempla il divario minimo d’età di 18 anni tra l’adottante e l’adottato, deve procedere ad un’interpretazione costituzionalmente compatibile dell’art. 291 C.c., al fine di evitare il contrasto con l’art. 30 Cost., alla luce della sua lettura da parte della giurisprudenza costituzionale e in relazione all’art. 8 della Convenzione Europea per la Protezione dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali, adottando quindi una rivisitazione storicosistematica dell’istituto, che, avuto riguardo alle circostanze del singolo caso in esame, consenta una ragionevole riduzione di tale divario di età, al fine di tutelare le situazioni familiari consolidatesi da lungo tempo e fondate su una comprovata affectio familiaris”.
Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, n. 7667/2020