Diffusione del proprio pensiero attraverso il mezzo televisivo
Questioni di legittimità costituzionale della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato)
Analisi sintetiche in diritto
La Corte Costituzionale ha costantemente affermato che la Costituzione, all’art. 21, riconosce e garantisce a tutti la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione e che tale libertà ricomprende tanto il diritto di informare, quanto il diritto di essere informati (v., ad esempio, sentt. nn. 202 del 1976, 148 del 1981, 826 del 1988). L’art. 21, come la Corte ha avuto modo di precisare, colloca la predetta libertà tra i valori primari, assistiti dalla clausola dell’inviolabilità (art. 2 della Costituzione), i quali, in ragione del loro contenuto, in linea generale si traducono direttamente e immediatamente in diritti soggettivi dell’individuo, di carattere assoluto.
Tuttavia, l’attuazione di tali valori fondamentali nei rapporti della vita comporta una serie di relativizzazioni, alcune delle quali derivano da precisi vincoli di ordine costituzionale, altre da particolari fisionomie della realtà nella quale quei valori sono chiamati ad attuarsi.
Sotto il primo profilo, la Corte ha da tempo affermato che il “diritto all’informazione” va determinato e qualificato in riferimento ai principi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale. Di qui deriva l’imperativo costituzionale che il “diritto all’informazione” garantito dall’art. 21 sia qualificato e caratterizzato: a) dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie – che comporta, fra l’altro, il vincolo al legislatore di impedire la formazione di posizioni dominanti e di favorire l’accesso nel sistema radiotelevisivo del massimo numero possibile di voci diverse – in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti; b) dall’obiettività e dall’imparzialità dei dati forniti; c) dalla completezza, dalla correttezza e dalla continuità dell’attività di informazione erogata; d) dal rispetto della dignità umana, dell’ ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori.
Sotto il secondo profilo, costante è l’affermazione nella giurisprudenza costituzionale che il diritto di diffusione del proprio pensiero attraverso il mezzo televisivo è fortemente condizionato dai connotati empiricamente riferibili all’uso di tale mezzo: connotati che, ove non fossero adeguatamente regolati e disciplinati, rischierebbero di trasformare l’esercizio di una libertà costituzionale in una forma di prevaricazione o, comunque, in un privilegio arbitrario. Fra questi condizionamenti di fatto la Corte, sin dalle sue prime pronunzie in materia, ha indicato la limitata possibilità di utilizzare l’etere al fine della radio-telecomunicazione circolare attraverso l’irradiazione di onde in determinate gamme di frequenza dello spettro radioelettrico (v. già sentt. nn. 59 del 1960, 225 del 1974) o, più precisamente, ha segnalato la sussistenza di una disponibilità dell’etere non sufficiente a garantire un libero accesso nello stesso (v., così, sent. n. 202 del 1976). In sentenze più recenti, la Corte ha aggiunto tra i condizionamenti di fatto anche l’elevato costo dell’organizzazione delle attività radiotelevisive e le ristrette possibilità di accesso alle risorse tecnologiche (v. spec. sentt. nn. 148 del 1981, 826 del 1988). Si tratta, in ogni caso, di elementi, la cui sussistenza dipende da fattori sociali, economici, giuridici e tecnici storicamente variabili e, comunque, obiettivamente accertabili e la cui verifica è demandata, innanzitutto, al legislatore e, in sede di controllo sulle leggi, al giudice di costituzionalità.
Per lungo tempo il legislatore, attraverso un uso del suo potere discrezionale giudicato non irragionevole dalla Corte, ha ritenuto che l’importanza dei condizionamenti di fatto ora indicati fosse tale da giustificare una riserva statale sull’intero settore radiotelevisivo. In conseguenza di ciò la relativa attività era complessivamente qualificata come servizio pubblico essenziale e attribuita, per l’erogazione, a una società concessionaria a prevalente partecipazione statale, sottoposta a controlli e a direttive da parte del Parlamento al fine di assicurare la realizzazione dei valori costituzionali posti a tutela del “diritto all’informazione” (pluralismo, imparzialità, etc.). In tal modo, la garanzia offerta dall’art. 21 della Costituzione alla libertà di diffusione del proprio pensiero veniva saldamente ancorata, per quel che riguarda il settore radiotelevisivo, all’art. 43 della Costituzione, tanto da rinvenire nel contenuto normativo di quest’ultimo i profili organizzativi fondamentali del settore medesimo, quali la riserva allo Stato, la connotazione dell’attività di radiotelediffusione, in quanto tale, come servizio pubblico essenziale, l’assegnazione della gestione del servizio stesso attraverso la concessione a una società diretta dallo Stato e, infine, la previsione di ampi controlli e di poteri d’indirizzo al fine di assicurare il preminente interesse generale.
Nel suo discrezionale apprezzamento delle condizioni in cui di fatto versava il settore radiotelevisivo e delle più opportune modalità dirette ad attuare i valori costituzionali prima ricordati, il legislatore, adottando la legge n. 223 del 1990 (anche in attuazione della direttiva CEE n. 89/552), ha considerato, invece, che quei valori potessero trovare adeguata realizzazione attraverso l’istituzione di un sistema radiotelevisivo di tipo “misto“, cioè basato sul “concorso di soggetti pubblici e privati” (art. 2). Questa valutazione del legislatore muove evidentemente dalla convinzione che, allo stato attuale dello sviluppo tecnologico ed economico-sociale, la limitatezza nella utilizzabilità delle frequenze per la radiotelediffusione circolare e la relativa ristrettezza delle possibilità di accesso alle risorse necessarie per l’organizzazione delle attività in questione sono tali da indurre a considerare gli imprenditori privati, sempreché sottoposti a rigorose condizioni d’ingresso e a predeterminati controlli, come soggetti in grado di concorrere insieme al servizio pubblico nella realizzazione dei valori costituzionali posti a presidio dell’informazione radiotelevisiva (v. artt. 1 e 2 della legge n. 223 del 1990).
Il “principio della concessione“, che si enuclea dalle disposizioni oggetto della contestazione in esame, rappresenta uno snodo fondamentale nel sistema “misto” delineato dalla legge n. 223 del 1990, nel quale sono destinati a operare una “concessionaria pubblica” e una delimitata pluralità di “concessionari privati“. In quel principio, infatti, si riflettono le connotazioni essenziali del rapporto tra i poteri pubblici di regolazione o di controllo e le posizioni soggettive o le attività dei singoli operatori del sistema. E, poiché queste ultime godono in Costituzione di una garanzia differenziata a seconda che i loro titolari siano soggetti pubblici oppure soggetti privati, il “principio della concessione“, se non intende porsi in contrasto con le norme costituzionali, deve assumere un significato diverso quando sia riferito alla “concessionaria pubblica” ovvero quando sia riferito ai “concessionari privati“.
Sotto il profilo indicato, la concessione con la quale viene affidata la gestione del servizio pubblico, così come è regolata nella legge n. 223 del 1990, rimanda a moduli organizzatori non dissimili, nella sostanza, rispetto a quelli connotanti lo stesso istituto nella legislazione che si ispirava al principio della “riserva statale“. E ciò vale tanto se si guarda alla caratterizzazione giuridica del concessionario (società d’interesse nazionale) e ai poteri di direttiva e di controllo che su di esso debbono esser esercitati dallo Stato (commissione parlamentare d’indirizzo e di vigilanza, nomina parlamentare dei consiglieri di amministrazione, etc.), quanto se si guarda alla peculiarità del regime delle risorse economiche di cui può usufruire il concessionario stesso. In altri termini, riferita al servizio pubblico, la concessione conserva, nel suo complesso, il carattere di strumento organizzatorio, attraverso il quale si costituiscono in capo al concessionario poteri e doveri da sottoporre a controlli discrezionali e al coordinamento amministrativo, in vista del perseguimento di finalità di interesse pubblico.
Al contrario, riferita ai privati, la concessione per l’esercizio della radiodiffusione sonora e televisiva assume un carattere complesso, poiché, mentre per determinati aspetti (c.d. assegnazione delle radiofrequenze) conserva una connotazione comune alla concessione del servizio pubblico, per altri aspetti (controlli sull’attività erogata e sull’organizzazione dell’impresa), invece, costituisce uno strumento di ordinazione nei confronti di facoltà e di doveri connessi alla garanzia costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21) e della libertà di iniziativa economica privata (art. 41), nonché ai correlativi limiti posti a tutela di beni d’interesse generale.
Questo duplice e complesso carattere della concessione per la radiodiffusione televisiva privata è desumibile dall’art. 16 della legge n. 223 del 1990, interpretato alla luce dell’art. 21 della Costituzione. L’art. 16, infatti, oltre a regolare la specifica concessione per l’installazione degli impianti nelle aree definite ai sensi dell’art. 4 della stessa legge, disciplina dettagliatamente la appena ricordata concessione per l’esercizio di impianti di radiodiffusione televisiva privata, assegnandole contenuti classificabili secondo due distinti profili, vale a dire quelli relativi a:
a) l’affidamento alla esclusiva disponibilità di individuati soggetti privati, sempreché in possesso dei requisiti prescritti dagli artt. 16 e 17 per il rilascio della concessione medesima, di determinate frequenze, definite in conformità ai piani di ripartizione e di assegnazione delle stesse previsti dall’art. 3, in relazione alle quali gli impianti, connotati da una certa potenza e da una particolare area di servizio, sono destinati a trasmettere;
b) l’abilitazione all’utilizzazione delle frequenze conferite (le quali, come è noto, sono suscettibili di utilizzazioni plurime) attraverso l’uso di determinati segnali, al fine della radiodiffusione televisiva circolare su scala nazionale o su scala locale.
Sotto il primo profilo, la concessione concerne un presupposto necessario per l’esercizio da parte dei privati della libertà di manifestazione del pensiero con il mezzo radiotelevisivo: un presupposto, comunque, che, proprio perché tale, non coincide con l’attività di cui consta quell’esercizio, attività che costituisce l’oggetto diretto della tutela accordata dall’art. 21 della Costituzione. Essa, infatti, per l’aspetto ora considerato, conferisce ai privati la disponibilità in via esclusiva di determinate utilità, le frequenze, in mancanza delle quali non sarebbe possibile l’attività di radiodiffusione televisiva circolare. Più precisamente, suo oggetto è il conferimento a determinati privati di un bene comune, l’etere, da parte del soggetto (Stato) che ne ha il governo complessivo, affinché gli assegnatari possano propagarvi in via esclusiva onde radioelettriche connotate da predefinite frequenze. In ogni caso, quale presupposto necessario condizionante lo svolgimento dell’attività di diffusione del pensiero attraverso il mezzo radiotelevisivo, l'”assegnazione delle frequenze” ai privati deve avvenire, per rispettare l’art. 21 della Costituzione, in modo tale che sia assicurata la massima obiettività e imparzialità, dal momento che la garanzia del nucleo di valore costituzionale espresso dalla libertà di manifestazione del pensiero non può, certo, esser vanificata, distorta o trasposta in una qualche forma di privilegio da parte di provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, non vincolati da precisi parametri legali.
Sotto il profilo del conferimento al privato dell’abilitazione a svolgere l’attività di teletrasmissione, la concessione disciplinata dall’art. 16 riconosce, invece, una facoltà, analoga a quella indicata dall’art. 29 per la diffusione via cavo, il cui svolgimento coincide con l’attività tutelata dall’art. 21 come manifestazione del pensiero. L’esercizio di tale facoltà, pertanto, è, per un verso, soggetto ai limiti stabiliti dall’art. 21 della Costituzione a tutela di determinati valori di carattere generale (buon costume, protezione dei minori, etc.) e, per altro verso, è sottoponibile a restrizioni o a controlli soltanto nel rispetto delle garanzie previste dallo stesso art. 21 della Costituzione e, in particolare, nel rispetto della riserva assoluta di legge, oltreché della c.d. riserva di giurisdizione.
Gli articoli della legge n. 223 del 1990 non contravvengono ai requisiti di validità sopraindicati, desumibili dall’art. 21 della Costituzione.
Nel determinare i criteri sulla cui base deve avvenire la selezione dei soggetti privati aspiranti alla concessione, l’art. 16, al comma diciassettesimo, impone che siano seguiti criteri oggettivi, che attengono alla potenzialità economica, alla qualità della programmazione prevista e dei progetti radioelettrici e tecnologici, oltreché, per i soggetti già operanti nel campo della emittenza radiotelevisiva, ad altri elementi più specifici, come la presenza sul mercato, le ore di trasmissione effettuate, la qualità dei programmi riscontrata, le quote percentuali di spettacoli e i servizi informativi autoprodotti, il personale dipendente, con particolare riguardo a quello con contratto giornalistico, e gli indici di ascolto rilevati. Si tratta di requisiti che, oltre ad essere oggettivi, sono predeterminati dalla legge in modo tale da delimitare e circoscrivere i poteri amministrativi sull’accesso dei privati nel sistema radiotelevisivo a parametri prefissati dalla legge, e non già lasciati alla scelta dell’amministrazione medesima.
Analogamente, per quanto riguarda lo svolgimento dell’attività di teletrasmissione, il principio della riserva assoluta di legge, posto dall’art. 21 della Costituzione a garanzia della libertà di manifestazione del pensiero, è rispettato sia sotto il profilo dei limiti di trasmissione, sia sotto quello dei controlli previsti. Per quanto riguarda il primo aspetto, infatti, l’art. 15, dal nono al tredicesimo comma, specifica, attraverso puntuali norme di legge, taluni dei limiti desumibili dalla Costituzione nei confronti della libertà di manifestazione del pensiero (divieto di trasmissione di messaggi di carattere subliminale o cifrati, divieto di messa in onda di programmi nocivi allo sviluppo psichico o morale dei giovani, divieto o limitazione della fascia oraria per la trasmissione di programmi vietati ai minori). Anche sotto il profilo dei controlli previsti, il principio di stretta legalità comportato dalla riserva assoluta di legge in materia di attività di manifestazione del pensiero non è contraddetto dalle norme contestate, tanto che il più importante fra i controlli delineati dalla legge n. 223 del 1990, quello attribuito al Garante per la radiodiffusione e l’editoria (art. 6), non è caratterizzato, come pure avviene per istituzioni analoghe operanti in ordinamenti diversi dal nostro, da funzioni ampiamente discrezionali, ma consiste, invece, in attività predeterminate dalla legge in modo tale che il relativo potere sia delimitato e circoscritto a parametri legislativamente stabiliti secondo i principi propri della riserva assoluta di legge.
In definitiva, poiché attraverso il “principio della concessione” gli articoli contestati non introducono deroghe o rotture alla regola della riserva assoluta di legge, si deve escludere che essi si pongano in contrasto con l’art. 21 della Costituzione.
Occorre osservare preliminarmente che, essendo l’attività di radiotrasmissione televisiva dei privati organizzata in forma di impresa, non si può dubitare dell’applicabilità alla stessa della garanzia costituzionale relativa alla libertà di iniziativa economica privata e dei connessi limiti di interesse sociale. Tuttavia, va sottolineato che nella materia ora considerata l’organizzazione imprenditoriale ha soltanto una posizione strumentale rispetto allo svolgimento dell’attività di diffusione del pensiero attraverso il mezzo radiotelevisivo, di modo che, come non si possono giustificare limiti all’impresa che siano tali da ricadere sull’attività di radiodiffusione televisiva con effetti di irragionevole compressione della libertà tutelata dall’art. 21 della Costituzione, così sono pienamente giustificabili limiti più rigorosi nei confronti delle imprese operanti nel settore al fine di apprestare un’adeguata protezione ai valori primari connessi alla manifestazione del pensiero attraverso il mezzo televisivo.
Alla luce di tali principi, le disposizioni contestate non si pongono in contrasto con l’art. 41 della Costituzione, poiché, mentre tutelano in modo adeguato l’autonomia di scelta costituzionalmente garantita agli imprenditori privati, nello stesso tempo sottopongono lo svolgimento di tale autonomia a limiti specifici, giustificati dall’esigenza di prevenire il pericolo che l’esercizio della libertà di scelta da parte dell’impresa possa arrecare pregiudizio al pluralismo e all’imparzialità dell’informazione televisiva e, in genere, ai valori protetti dall’art. 21 della Costituzione.
Sotto il profilo del rispetto della libertà d’impresa, occorre sottolineare, innanzitutto, che, nel prevedere la radiodiffusione privata a carattere commerciale, l’art. 16 salvaguarda chiaramente lo scopo di lucro, connaturale a qualsiasi attività imprenditoriale svolta dai privati, ai sensi dell’art. 41, primo comma, della Costituzione. In coerente svolgimento con tale principio, la legge n. 223 del 1990 riconosce l’autonomia imprenditoriale sull’attività produttiva, rimettendo, in particolare, alla libertà dell’imprenditore la scelta dei mezzi di finanziamento della propria azienda fra il complesso delle risorse utilizzabili ai sensi dell’art. 15 e garantendo che queste ultime siano certe e predeterminate.
Sotto il profilo dei limiti e dei controlli effettuabili nei confronti dello svolgimento della libertà d’iniziativa economica privata, occorre osservare, in linea generale, che anche per l’aspetto relativo all’attività d’impresa, il rapporto tra poteri pubblici e soggetti privati è posto al riparo da interventi amministrativi non rispettosi del principio della riserva di legge stabilito dall’art. 41, secondo e terzo comma, della Costituzione, a tutela della libertà di iniziativa economica privata. Il legislatore, infatti, ha improntato lo statuto dell’impresa radiotelevisiva al principio della certezza giuridica, determinando la linea di confine tra l’attività dei privati e i poteri pubblici in termini oggettivi di legalità sostanziale, vale a dire attraverso la predeterminazione in norme di legge del contenuto essenziale e della forma dei limiti imponibili all’autonomia imprenditoriale.
L’anzidetto principio connota le restrizioni previste dalla legge n. 223 del 1990 alla libertà d’impresa radiotelevisiva e, in particolare, i limiti e i controlli derivanti dalla specifica disciplina “anti-trust” ivi stabilita, in relazione alla quale, anzi, quel principio è reso più rigoroso in ragione dell’esigenza di tutelare nel modo più efficace i valori primari della libertà, del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione (televisiva) contenuti nell’art. 21 della Costituzione. In ragione di ciò, infatti, la disciplina “anti-trust” appositamente prevista per il settore radiotelevisivo correttamente non ricorre a parametri consistenti in concetti indeterminati, in clausole generali o, comunque, in poteri dotati di un’ampiezza sostanzialmente non definita nella legge, ma prevede, piuttosto, limiti alla dimensione delle imprese basati su prescrizioni precise e puntuali.
Alla luce delle considerazioni ora svolte, anche il dubbio di legittimità costituzionale prospettato nei confronti degli artt. 2, 3, 15, 16, 19 e 32 della legge n. 223 del 1990 in riferimento all’art. 41 della Costituzione non è fondato, poiché il “principio della concessione” stabilito dalle disposizioni contestate non comporta un’irragionevole compressione della libertà d’iniziativa economica privata, ma sottopone quest’ultima a regole e a controlli, che, valutati anche in relazione alla loro ricaduta finale sulla libertà di manifestazione del pensiero, rispondono ai principi della riserva di legge e della certezza giuridica.
Corte Costituzionale sentenza n. 112 del 1993