Differenza tra prova e indizio
Secondo la giurisprudenza di legittimità vi è ontologica differenza tra prova e indizio, costituita dal fatto che, mentre la prima, in quanto si ricollega direttamente al fatto storico oggetto di accertamento, è idonea ad attribuire carattere di certezza allo stesso, l’indizio, isolatamente considerato, fornisce solo una traccia indicativa di un percorso logico argomentativo, suscettibile di avere diversi possibili scenari, e, come tale, non può mai essere qualificato in termini di certezza con riferimento al fatto da provare. La differenza tra indizio e prova non risiede nella tipologia del mezzo da cui deriva l’inferenza logica che costituisce il loro carattere comune, ma nei contenuti che essi esprimono e rappresentano (Cass., Sez. 2, n. 14704 dei 22/4/2020; Sez. 5, n. 16397 del 21/2/2014).
Sin dalla pronuncia delle Sezioni Unite Mannino (Sez. U., n. 33748 del 12/7/2005), la giurisprudenza di legittimità ha focalizzato la sua attenzione sulla necessità, in tema di valutazione della prova indiziaria, che il metodo ermeneutico da adottare debba essere quello che ruota intorno ad una lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio; una lettura unitaria, però, che non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può perciò prescindere dall’operazione propedeutica, costituita dal valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarla, ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (sulla natura bifasica della verifica sulla valenza della prova indiziaria, cfr. Cass., Sez. 1, n. 1790 del 30/11/2017, dep. 2018). Viene bandita, pertanto, qualsiasi valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, che, valutati dapprima nella loro individualità per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non sole verosimili o supposti) e l’intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica), successivamente vanno raccolti in senso logico attraverso un esame globale degli elementi certi, risolvendo eventuali ambiguità e consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (cfr. Cass., Sez. 1, n. 20461 del 12/4/2016; Sez. 1, n. 8863 del 18/11/2020, dep. 2021). E’ presente, quindi, anche nella ricerca del canone valutativo della prova indiziaria, il richiamo al principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, che costituisce un modello ermeneutico non solo per la motivazione della decisione, ma anche in prospettiva probatoria.
E’ noto, peraltro, che la prova logica così raggiunta non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto a quella diretta o storica (Cass., Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017), dovendosi ritenere superata la tradizionale distinzione tra prova rappresentativa e prova critica, fatta al fine della attribuzione di un maggiore o minore valore processuale piuttosto che all’altra; invece, deve riconoscersi, tanto alle une quanto alle altre, una identica attitudine alla dimostrazione del fatto, una volta che abbiano superato il controllo della verifica interna e trovino riscontro in ulteriori elementi che si riferiscano direttamente alla persona dell’imputato (cfr., tra le altre, Cass., Sez. 3, n.32029 del 25/05/2022). Si richiede, dunque, che la attitudine rappresentativa sia conseguita con rigorosità metodologica, che giustifica e sostanzia il principio del c.d. libero convincimento del giudice (Cass., Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992). La prova logica, tuttavia, proprio in rapporto alle sue caratteristiche ontologiche, non può, per definizione, offrire una rappresentazione del fatto sovrapponibile a quella di una prova diretta, posto che la dimostrazione promana non già da una conclamata affidabilità di una voce narrante (o di un documento) in grado di riprodurre l’azione criminosa (in quanto tale), ma da un «raccordo logico» tra un fatto “secondario” e il “fatto da provare“.
Corte di Cassazione, Sez. 5, n. 2234 del 19.01.2023