La giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di dare indicazioni interpretative in merito alla necessità di motivare in modo chiaro e completo sulla determinazione della durata del lavoro di pubblica utilità, in caso di ammissione dell’imputato all’istituto della messa alla prova, insistendo sulle peculiarità valutative proprie della forma di diversion prevista dal legislatore all’art. 168-bis C.p. e, soprattutto, dando spazio ad una valutazione di adeguatezza e proporzionalità della misura di tale durata, rispetto ai parametri consueti di adeguamento della sanzione al fatto di reato commesso in concreto ed alla personalità dell’autore previsti dall’art. 133 C.p., qualora non vi siano precisazioni nel programma di trattamento stilato dall’ufficio dei servizi sociali (cfr., Cass., Sez. 5, n. 48258 del 4/11/2019, che ha annullato con rinvio l’ordinanza impugnata, in un caso in cui il giudice aveva proceduto ad integrazioni del programma di trattamento elaborato dall’UEPE d’intesa con l’imputato, costituite proprio dall’indicazione della durata del lavoro di pubblica utilità, non precisata nel programma suddetto, e dalla sua determinazione nel massimo previsto, senza procedere all’apprezzamento della concreta gravità dei fatti e della personalità degli imputati).
E ciò a maggior ragione quando la durata del lavoro di pubblica utilità cui è subordinata l’ammissione alla messa alla prova (in forza del comma terzo dell’art. 168-bis C.p.) non è precisata nel programma di trattamento stilato, d’intesa con l’imputato, dagli uffici dedicati ed il giudice lo integri ovvero, essendo invece determinata, se ne discosti (Cass., Sez. 3, n. 55511 del 19/9/2017; Cass., Sez. 4, n. 481 del 26/10/2021).
Una ricostruzione sistematica dell’istituto convince della bontà di tali approdi, emergendo dalla combinazione delle disposizioni normative rilevanti, infatti, che la previsione obbligatoria del lavoro di pubblica utilità costituisce l’essenza afflittiva del sistema della sospensione con messa alla prova, sicchè solo il riferimento ai parametri di cui all’art. 133 C.p. consente di individualizzare la scelta del trattamento penale complessivo di probation.
Ed infatti:
– l’art. 464-bis, comma 4, C.p.P. prevede che, alla richiesta formulata dall’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova, è allegato un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna, ovvero, nel caso in cui non sia stata possibile l’elaborazione, la richiesta di elaborazione del predetto programma, che prevede: le modalità di coinvolgimento dell’imputato,
nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale;
– l’art. 464-quater, comma 3, C.p.P. stabilisce che la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all’art. 133 C.p., reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati;
– l’art. 168-bis, comma 3, C.p. prevede che la concessione della messa alla prova è, inoltre, subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità, che consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato; la prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore.
Dall’analisi combinata delle disposizioni suddette emerge nettamente la correttezza delle ragioni ispiratrici della giurisprudenza di legittimità richiamata, dovendosi ribadire, pertanto, che il criterio più affidabile in tema di determinazione della durata del lavoro di pubblica utilità, fulcro del programma di trattamento connesso al procedimento di messa alla prova, è quello dell’applicazione degli indici dettati dall’art. 133 C.p., in una necessaria loro valutazione complessiva, sia dal punto di vista oggettivo (la gravità del reato) che soggettivo (il grado di colpevolezza e le esigenze di risocializzazione).
La prospettiva ermeneutica appena richiamata si è consolidata anche per l’intervento della Corte costituzionale (ord. n. 54 del 2017) che, nell’avallare l’innegabile natura afflittiva e latamente sanzionatoria della componente “lavoro di pubblica utilità” nel procedimento di messa alla prova, dichiarando infondate o manifestamente inammissibili le questioni sollevate da alcuni giudici di merito, ha sottolineato, in uno con le Sezioni Unite (Cass., Sez. U., n. 33216 del 31/3/2016, richiamata dalla Consulta), come “la normativa sulla sospensione del procedimento con messa alla prova comporta una diversificazione dei contenuti, prescrittivi e di sostegno, del programma di trattamento“.. e “l’affidamento al giudice di un giudizio sull’idoneità del programma, quindi sui contenuti dello stesso, comprensivi sia della parte “afflittiva” sia di quella “rieducativa”, in una valutazione complessiva circa la rispondenza del trattamento alle esigenze del caso concreto, che presuppone anche una prognosi di non recidiva.
La Corte costituzionale evidenzia che tale giudizio deve svolgersi in base ai parametri di cui all’articolo 133 del codice penale, richiamati dall’art. 464-quater, comma 3, C.p.P.. e che il trattamento dell’imputato nei diversi casi oggetto del procedimento speciale in questione risulta, perciò, necessariamente diverso, in linea con il dettato dell’art. 3 Cost.
Quanto alla durata del lavoro di pubblica utilità e ai dubbi di costituzionalità sollevati in ordine al fatto che questa non sarebbe prevista e che ugualmente non si siano indicati, da parte del legislatore, i parametri per determinarla ed il soggetto competente a questa determinazione, la Corte costituzionale sottolinea come:
– benché non espressamente indicata, la durata massima risulta indirettamente dall’art. 464-quater, comma 5, C.p.P. perché, in mancanza di una sua diversa determinazione, corrisponde necessariamente alla durata della sospensione del procedimento, la quale non può essere: «a) superiore a due anni quando si procede per reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria; b) superiore a un anno quando si procede per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria»;
– al termine del periodo di sospensione, il giudice, a norma dell’art. 464-septies C.p.P., deve valutare l’esito della messa alla prova, «tenuto conto del comportamento dell’imputato e del rispetto delle prescrizioni stabilite», tra le quali vi sono anche quelle relative al lavoro di pubblica utilità, che alla cessazione della sospensione deve essere terminato;
– per determinare in concreto tale durata il giudice deve tenere conto dei criteri previsti dall’art. 133 C.p. e delle caratteristiche che dovrà avere la prestazione lavorativa, considerato che questa potrà svolgersi in giorni anche non continuativi, con una durata giornaliera da stabilire, nel limite massimo di otto ore, e che dovrà avvenire «con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato» (art. 168-bis, terzo comma, C.p.).
La Corte costituzionale, insomma, ha indicato, quale condizione per la compatibilità del sistema della messa alla prova e, nel suo ambito, del lavoro di pubblica utilità, con gli artt. 3, 24 e 27 Cost., proprio il necessario riferimento ai parametri previsti dall’art. 133 C.p.
Inoltre, deve aggiungersi un’ulteriore considerazione sistematica: il legislatore non ha fissato un confine rigido tra il programma di trattamento elaborato dal UEPE, confezionato d’intesa con l’imputato, ed il provvedimento del giudice con il quale si dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Come è stato sottolineato nelle pronunce delle Sezioni semplici già richiamate, non si prevede, se la durata del lavoro di pubblica utilità debba essere fissata necessariamente nel programma dall’ufficio esecuzione penale esterna (UEPE) o debba essere decisa dal giudice, ferma la necessità di un controllo giurisdizionale sulla sua congruità.
A tal fine si ritiene che tale controllo non può che comportare oneri motivazionali diversi a seconda che il programma, accettato espressamente dall’imputato, indichi la durata del lavoro di pubblica utilità ovvero non la indichi: nel primo caso, infatti, la motivazione del successivo provvedimento del giudice potrà limitarsi a un richiamo alla congruità di quanto già previsto di intesa fra l’imputato e l’UEPE; nel secondo caso, sarà invece necessaria una motivazione più pregnante (cfr., in tal senso, Cass., Sez. 3, n. 55511 del 2017 e Sez. 5, n. 48258 del 2019, citate). (Cass., Sez. 5, n. 22136/2022).