La dottrina ha analizzato la situazione della “presenza inerte” (connivenza) nel luogo e nel momento in cui un reato viene perpetrato:
quando non sussiste un obbligo giuridico di impedire l’evento, tale inerzia non è punibile se non si concretizza in un contributo significativo.
Parte della dottrina ritiene che la presenza fisica durante le fasi di perpetrazione del reato potrebbe integrare una forma di partecipazione psichica e quindi di concorso morale nel reato, quando costituisce, concretamente, uno stimolo ed una rassicurazione per l’esecutore.
Altri studiosi, invece, hanno escluso che sia sufficiente la derivazione di un sentimento di sicurezza per chi delinque, per qualificare come condotta partecipativa la mera presenza, seppure la stessa possa essere valutata come manifestazione di compiacimento per quanto venga ad essere commesso.
Anche la giurisprudenza di legittimità ha affrontato il tema, definendo come “connivenza” la situazione in cui un soggetto assista passivamente alla perpetrazione di un reato che avrebbe la possibilità, ma non il dovere giuridico di impedire, magari con adesione interna all’altrui condotta penalmente rilevante: tale presenza non reca alcun contributo alla commissione del reato.
Mentre la connivenza “postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo”, la partecipazione deve manifestarsi in “forme di presenza” che agevolino la condotta illecita, anche solo assicurando all’altro concorrente stimolo all’azione o un maggior senso di sicurezza nella propria condotta, palesando chiara adesione alla condotta:
è necessario quindi un contributo causale, seppure in termini minimi “di facilitazione della condotta delittuosa mentre la semplice conoscenza o anche l’adesione morale, l’assistenza inerte e senza iniziative a tale condotta non realizzano la fattispecie concorsuale”.
Peraltro, diversamente, è stato precisato che la partecipazione morale può essere configurata quando il mantenimento di un atteggiamento di “non intervento”, in virtù di altre risultanze probatorie, assuma il significato di vera e propria adesione all’altrui azione criminosa, con conseguente rafforzamento della volontà dell’esecutore materiale ed agevolazione della sua opera, “sempre che il concorrente morale si sia rappresentato l’evento del reato ed abbia partecipato ad esso esprimendo una volontà criminosa uguale a quella dell’autore materiale”.
Questo perché il concorso di cui all’art. 110 C.p. richiede “una condotta volontaria di rafforzamento, un contributo causale, materiale o psicologico che abbia consentito una più agevole commissione del delitto, stimolando o rafforzando il proposito criminoso del concorrente ed un’incidenza nel determinare il fatto illecito nella psiche dell’esecutore materiale.”
Più recentemente è stato precisato che la condotta di concorso morale deve manifestarsi in un comportamento esteriore che arrechi un contributo apprezzabile alla realizzazione del delitto, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri compartecipi e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità di produzione del fatto illecito.
Da questa disamina emerge con chiarezza che è compito del Giudice del merito indicare il rapporto di causalità dell’attività incentivante all’esecuzione materiale del reato, in quanto la semplice presenza inattiva od anche la sola connivenza, oppure il non aver impedito la consumazione del reato (qualora non sussista l’obbligo giuridico di impedire l’evento) non costituiscono concorso morale.
Di contro, per la configurazione del concorso, è sufficiente la partecipazione all’altrui attività criminosa con la volontà di adesione, che può manifestarsi in forme agevolative della detenzione, consistente nella consapevolezza di apportare un contributo causale alla condotta altrui già in atto, assicurando all’agente una certa sicurezza ovvero garantendo, anche implicitamente, una collaborazione in caso di bisogno, in modo da consolidare la consapevolezza nell’altro di poter contare su una propria attiva collaborazione.
Corte di Cassazione Sent. Num. 35150 Anno 2011