La sentenza che si riporta in commento affronta l’analisi dei rapporti logico-giuridici fra i dati normativi costituiti dalle disposizioni contenute nel D.P.R. n. 309 del 1990, con le sue successive modifiche, e dalla L. n. 242 del 2016, con riferimento ai profili relativi alla commercializzazione delle infiorescenze della cannabis sativa.
Il D.P.R. n. 309 del 1990, intitolato “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza“, rappresenta un micro-ordinamento complesso, al cui interno soltanto una porzione è dedicata alla “Repressione delle attività illecite” (Titolo 8, artt. 72-86).
La L. n. 242 del 2016 contiene le “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa“, pianta la cui coltivazione è consentita già dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26 – seppure esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all’art. 27, consentiti dalla normativa dell’Unione Europea – che pone il divieto per le coltivazioni indicate nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14.
Dai contenuti dei lavori preparatori si evince che la L. n. 242 del 2016 è mossa dalla ratio di promuovere e diffondere, nel sistema produttivo italiano, l’uso della canapa (in particolare, della canapa sativa L.), delineando molteplici settori in cui la stessa può essere impiegata: il legislatore del 2016 ha voluto ricreare le condizioni per far ripartire la filiera nazionale della canapa, la cui coltivazione è considerata necessaria per un ulteriore incremento del settore primario.
Nella relazione alla proposta di legge si precisa che si è voluto anche evitare che i coltivatori rischino gli effetti (procedimenti penali con onerose spese legali, sequestri o distruzioni o, comunque, perdite dei raccolti) di accertamenti eseguiti con procedure di prelievo e di esame contrastanti con le norme Europee sulla determinazione della percentuale di THC nelle coltivazioni. In effetti, il legislatore non ha promosso solo la coltivazione, ma espressamente l’intera filiera agroindustriale della canapa.
Deve rilevarsi che la L. n. 242 del 2016, art. 1, comma 2, – legge che è posteriore al D.P.R. n. 309 del 1990 – precisa che essa “si applica alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309“.
Tale disciplina non si limita a dettare norme afferenti al titolo 3 del D.P.R. del 1990 che già nel capo I, all’art. 26 prevedeva una esenzione della coltivazione della canapa “per la produzione di fibre o altri usi industriali” dalle coltivazioni e produzioni vietate, ma espressamente colloca la coltivazione della varietà di canapa di cui tratta al di fuori dell’ambito di applicazione dell’intero D.P.R..
La cannabis è una pianta, non è un’unica sostanza chimica. Ogni pianta di cannabis contiene sia il chemiotipo CBD (cannabidiolo), che viene utilizzato per usi agroindustriali e terapeutici sia il chemiotipo THC (delta-9-tetraidrocannabinolo), che caratterizza le varietà destinate a produrre inflorescenze con effetto stupefacente o medicamenti. La marijuana è costituita dalle infiorescenze delle piante femminili della cannabis contenenti il principio attivo THC, essiccate per il fumo, dalle quali si può ricavare anche una resina denominata hashish.
Il legislatore italiano si è interessato tardivamente della coltivazione della canapa come fonte di sostanze stupefacenti perché le un tempo estese colture della pianta erano destinate alla produzione industriale mentre i prodotti contenenti THC provenivano dall’estero già pronti per essere usati a fini stupefacenti.
La prima disciplina italiana degli stupefacenti (L. 18 febbraio 1923, n. 396) indicò tra le droghe vietate solo gli oppiacei e la cocaina punendone il commercio, non anche la coltivazione; il codice penale del 1930 trattò i reati In materia di stupefacenti ma non fornì criteri per individuare le sostanze vietate e non si interessò alla coltivazione. La L. 22 ottobre 1954, n. 1041 pur vietando “la coltivazione del papaver somniferum e di altre piante dalle quali si possono ricavare sostanze comprese nell’elenco degli stupefacenti” non menzionò espressamente la canapa. Dopo che la produzione della canapa a fini industriali fu quasi scomparsa (mentre la marijuana era divenuta oggetto di un consumo di massa) la L. 22 dicembre 1975, n. 685, art. 26 vietò la coltivazione anche della canapa indiana se non, previa autorizzazione, “per scopi scientifici, sperimentali o didattici” ma, come suindicato, successivamente già nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26 il ha escluso la coltivazione della canapa “per la produzione di fibre o altri usi industriali” dalle coltivazioni e produzioni vietate.
La L. n. 242 del 2016 mira a promuovere la coltivazione e la filiera agroindustriale della canapa e indica due diversi limiti di THC.
Quello dello 0,2% – posto nella disposizione su “controlli e sanzioni” (art. 4) e in nessuna altra parte della legge – ha la sua chiara ragione nella normativa sovranazionale costituita dal Regolamento (CE) n. 73/2009 del Consiglio del 19 gennaio 2009, che “stabilisce norme comuni relative ai regimi di sostegno diretto agli agricoltori nell’ambito della politica agricola comune e istituisce taluni regimi di sostegno a favore degli agricoltori…” e prevede il “pagamento corrisposto direttamente agli agricoltori nell’ambito di uno dei regimi di sostegno“.
Nel titolo III (“regime di pagamento unico“) di questo provvedimento, si disciplina dell’aiuto economico corrisposto agli agricoltori in proporzione agli ettari utilizzati per l’attività agricola (definiti “ettari ammissibili“, all’art. 39 (“uso dei terreni per la produzione di canapa“) prevedendo che “le superfici utilizzate per la produzione di canapa sono ammissibili (nel senso di ammesse al regime di sostegno economico diretto) solo se le varietà coltivate hanno un tenore di tetraidrocannabinolo non superiore allo 0,2%“. Al comma 2 si prevede che “… la concessione di pagamenti è subordinata all’uso di semente certificate di determinate varietà“. Nel titolo 4 (“altri regimi di aiuto“), capitolo 1 (“regimi di aiuto comunitari“) Sezione 5 (“aiuto alle sementi“) art. 87, comma 4, si prevede che “le varietà di canapa (cannabis sativa L.) per le quali deve essere versato l’aiuto alle sementi di cui al presente articolo sono determinate secondo la procedura di cui all’art. 141, par. 2“.
La ragione della presenza di queste disposizioni particolari per la canapa (come, del resto, ve ne sono per altri prodotti agricoli e allevamenti secondo le rispettive specificità) è dichiarata nel preambolo: “È inoltre opportuno adottare misure specifiche per la canapa, per evitare che siano erogati aiuti a favore di colture illecite“. A questo scopo è stato previsto il doppio limite (0,2% e 0,6%) contenuto nella L. n. 242 del 2016, art. 4, che fa riferimento a controlli e sanzioni (senza, però, definire queste ultime.)
La normativa Europea, che ovviamente non potrebbe incidere in alcun modo sulla normativa penale interna, ha risolto il problema della possibile commistione tra canapa proveniente da colture lecite e canapa con possibili effetti stupefacenti fissando un tenore massimo di THC quale limite per gli aiuti economici a favore degli agricoltori.
La L. n. 242 prevede i controlli, prendendo atto che dal superamento della percentuale del limite di THC dello 0,2% – determinato, fra l’altro, proprio secondo le modalità di cui al predetto regolamento comunitario (oltre che del D.L. 24 giugno 21014 n. 91/2014, relativo a controlli ispettivi di tipo amministrativo sulle imprese agricole) consegue la perdita dei benefici economici. Ma prevede espressamente, con l’ultimo comma dell’articolo 4, che sino alla diversa misura dello 0,6% di THC, la coltivazione di canapa da semente autorizzata è conforme a legge.
In altri termini, non lo 0,2%, ma lo 0,6% è la percentuale di THC al di sotto del quale la sostanza non è considerata dalla legge come produttiva di effetti stupefacenti giuridicamente rilevanti.
La L. n. 242 del 2016 attesta che la coltivazione delle varietà di canapa, nella stessa considerate, non è reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73 e viene consentita senza necessità di autorizzazione: il coltivatore non ha l’obbligo di comunicarne l’inizio alla Polizia giudiziaria, ma solo di conservare i cartellini della semente e le fatture di acquisto, e se all’esito dei controlli – che vanno effettuati secondo il metodo prescritto dalla vigente normativa dell’Unione Europea e nazionale di recepimento (L. n. 242 del 2016, art. 4, comma 6) – il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 % e entro il limite dello 0,6 % nessuna responsabilità è prevista per l’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni (L. n. 242 del 2016, art. 4, comma 5). Il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla legge possono essere disposti dall’autorità giudiziaria solo se, da un accertamento – effettuato secondo il metodo di cui al comma 3 – risulti che il contenuto di THC nella coltivazione è superiore allo 0,6 per cento e anche in questo caso è esclusa la responsabilità dell’agricoltore (L. n. 242 del 2016, art. 4, comma 7).
La L. n. 242 del 2016 indica le finalità per le quali la coltivazione della canapa è consentita o, meglio, per le quali è promossa, ma non tratta della commercializzazione della canapa oggetto della coltivazione.
Tuttavia, risulta del tutto ovvio che la commercializzazione sia consentita per i prodotti della canapa oggetto del “sostegno e della promozione“, espressamente contemplati negli artt. 2 e 3 della legge e, in particolare, fra gli altri: i “semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali”, “alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori“, “semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico“, destinazioni al “florovivaismo“.
Deve sottolinearsi come si faccia riferimento alla produzione dei beni e non alla loro commercializzazione, questo mostra che la legge è diretta ai produttori e alle aziende di trasformazione e non cita i passaggi successivi semplicemente perché non li deve disciplinare.
Si tratta di una legge di “sostegno e… promozione” della produzione, nella quale – quindi – il riferimento alla tipologia di uso non comporta che siano di per sé vietati altri usi non menzionati.
Peraltro, deve registrarsi che la Circolare del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari, Forestali e del Turismo del 22 maggio 2018 n. 70, ha ricondotto le infiorescenze (lett. g), alla categoria del florovivaismo così considerando lecito il loro commercio.
Con riferimento al caso in esame, la questione che sorge è se la commercializzazione possa riguardare anche la vendita al dettaglio delle infiorescenze (già materialmente oggetto della vendita all’ingrosso concernente i prodotti sopra considerati), contenenti il THC (nei limiti, fissati dalla L. n. 242 del 2016) e il CBD (che non ha effetti stupefacenti e mitiga quelli dell’altro principio chimico) per fini connessi all’uso che l’acquirente riterrà di farne e che potrebbero riguardare l’alimentazione (infusi, the, birre), la realizzazione di prodotti cosmetici – entrambi usi espressamente considerati dalla L. n. 242 del 2016 – e anche il fumo.
Si è sostenuto che la liceità della cannabis è circoscritta alla sua coltivazione e alla destinazione dei prodotti coltivati entro l’alveo delle previsioni esplicite contenute nella L. n. 242 del 2016. Le disposizioni di questa legge che consentono, a certe condizioni, la coltivazione di cannabis, sono ritenute norma eccezionale e sicuramente non estensibili analogicamente alle altre condotte disciplinate dal D.P.R. n. 309 del 1990 tra le quali la vendita e la detenzione per il commercio. Da questo assunto, si conclude che la presenza di un principio attivo sino allo 0.6% è consentita solo per i coltivatori non anche per chi commerci i prodotti derivati dalla cannabis (Cass., Sez. 6, n. 56737 del 27/11/2018; Sez. 6, n. 52003 del 10/10/2018; Sez. 4, n. 34332 del 13/06/2018).
Tuttavia, la configurazione della intera legge n. 242/2016 come norma eccezionale rispetto al D.P.R. n. 309 del 1990, non estensibile analogicamente, non appare appropriata perché non vengono in rilievo rapporti normativi in termini di regola-eccezione, ma emerge il configurarsi di un microsettore normativo in radice autonomo per la cannabis proveniente dalle coltivazioni consentite.
In ogni caso, questa interpretazione non è nutrita da una precisazione delle composite rationes che reggono il D.P.R. n. 309 del 1990 e da una valutazione del loro rapporto con la ratio della L. n. 242 del 2016, né si confronta con le potenziali implicazioni sistematiche della portata normativa della L. n. 242 del 2016, art. 1, comma 2, che esclude le coltivazioni di canapa delle varietà ammesse dall’ambito di applicazione dell’intero D.P.R. n. 309 del 1990.
Cosi come assertivamente espressa, la tesi appare una petizione di principio che trascura che è nella natura dell’attività economica che i prodotti della “filiera agroindustriale della canapa” (che la legge espressamente mira a promuovere) siano commercializzati e che, in assenza di specifici dati normativi non emergono particolari ragioni per assumere che il loro commercio al dettaglio debba incontrare limiti che non risultano posti al commercio all’ingrosso.
Il Collegio ritiene che sia possibile una diversa interpretazione peraltro presente nella giurisprudenza di merito (cfr., Tribunale di Ancona, 27/07/2018; Tribunale di Rieti 26/07/2018; Tribunale di Macerata 11/07/2018; Tribunale di Asti, 4/07/2018) e in dottrina – secondo cui la liceità della commercializzazione dei prodotti della predetta coltivazione (e, in particolare, delle infiorescenze) costituirebbe un corollario logico-giuridico dei contenuti della L. n. 242 del 2016: in altri termini, dalla liceità della coltivazione della cannabis alla stregua della legge n. 242/2016, deriverebbe la liceità dei suoi prodotti contenenti un principio attivo THD inferiore allo 0.6 %, nel senso che non potrebbero più considerarsi (ai fini giuridici), sostanza stupefacente soggetta alla disciplina del D.P.R. 309 del 1990, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano tra quelle inserite nelle tabelle allegate al predetto d.P.R..
La questione va inquadrata nel corretto rapporto fra i principi fondamentali dell’ordinamento che considera le norme incriminatrici come (tassative) eccezioni rispetto alla generale libertà di azione delle persone per cui eventuali ridimensionamenti delle loro portate normative non costituiscono eccezioni (norme eccezionali non estensibili analogicamente per il divieto posto dall’art. 14 preleggi) ma fisiologiche riespansioni (ben estensibili analogicamente) delle libertà individuali, che nel nostro sistema normativo non sono funzionalizzate (a differenza di quel che vale per altre concezioni del rapporto Stato-individuo) a scopi pubblici e restano espressioni individuali della persona, salvi i limiti previsti dall’art. 42 Cost. per l’iniziativa economica privata.
Riconosciuto questo, la questione da porsi non è se il commercio della cannabis proveniente dalle coltivazioni lecite (senza necessità di autorizzazione) esuli dalla disciplina delle norme incriminatrici dettata nel D.P.R. n. 309 del 1990, ma se questa disciplina possa riguardare la commercializzazione di prodotti dei quali è riconosciuta la liceità (se la loro natura non deborda dai limiti fissati dalla L. n. 242 del 2016).
Né il D.P.R. n. 309 del 1990 né (inesistenti) fonti normative primarie successive alla L. n. 242 del 2016 presentano contenuti che consentano di affermare questa conclusione.
Ne deriva che, per la questione in esame, vale il principio generale secondo il quale la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illeceità deve, in assenza di specifici divieti o controlli preventivi previsti dalla legge, ritenersi consentita nell’ambito del generale potere (agere licere) delle persone di agire per il soddisfacimento dei loro interessi (facultas agendi).
La fissazione del limite dello 0,6% di THC entro il quale l’uso delle infiorescenze della cannabis proveniente dalle coltivazioni contemplate dalla L. n. 242 del 2016 è lecito, rappresenta l’esito di quello che il legislatore ha considerato un ragionevole equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell’ordine pubblico e le (in pratica inevitabili) conseguenze della commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni.
Su queste basi, se il rivenditore di infiorescenze di cannabis provenienti dalle coltivazioni considerate dalla L. n. 242 del 2016 è in grado di documentare la provenienza (lecita) della sostanza, il sequestro probatorio delle infiorescenze, al fine di effettuare successive analisi, può giustificarsi solo se emergono specifici elementi di valutazione che rendano ragionevole dubitare della veridicità dei dati offerti e lascino ipotizzare la sussistenza di un reato D.P.R. 309 del 1990, ex art. 73, comma 4.
Invece, è sempre possibile, sul piano del diritto amministrativo, che gli organi di polizia prelevino soltanto campioni (per non compromettere le esigenze economiche del venditore) delle infiorescenze per verificare, con forme analoghe a quelle stabilite dalla L. n. 242 del 2016, art. 4, il superamento del tasso soglia di 0.6% di THC, dal quale possono derivare sia la non ammissibilità della coltivazione sia il sequestro preventivo ex art. 321 cod. proc. dell’intera sostanza detenuta dal commerciante.
La posizione di chi sia trovato dagli organi di polizia in possesso di sostanza che risulti provenire dalla commercializzazione di prodotti delle coltivazioni previste dalla L. n. 242 del 2016 è quella di un soggetto che fruisce liberamente di un bene lecito.
Questo comporta che la percentuale dello 0,6% di THC costituisce il limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non devono considerarsi psicotropi o stupefacenti secondo un significato che sia giuridicamente rilevante per il D.P.R. n. 309 del 1990.
Dalla piena legittimità dell’uso della cannabis proveniente dalle coltivazioni lecite deriva che il suo consumo non costituisce illecito amministrativo D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 75, a meno che non emerga che il prodotto sia stato in qualche modo alterato e che di questa condizione chi lo detenga per cederlo sia consapevole.
Questa conclusione non conduce, per altro verso, a un automatismo per il quale dal superamento dello 0,6 % di THC nella sostanza detenuta derivi immediatamente una rilevanza penale della condotta, che, invece, andrà comunque – ricostruita e valutata secondo i vigenti parametri di applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990.
Vale al riguardo evidenziare che il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14, al quale rimanda il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, non prevede (lett. a) che nella tabella I siano indicati la cannabis e il suo principio attivo (tetraidrocannabinolo), ma soltanto, in termini generali (nn.4 e 7), che vi sia indicata ogni “sostanza che produca effetti sul sistema nervoso centrale ed abbia capacità di determinare dipendenza fisica o psichica dello stesso ordine o di ordine superiore a quelle precedentemente indicate” (oppio, coca, anfetamine) e ogni “pianta o sostanza naturale o sintetica che possa provocare allucinazioni o gravi distorsioni sensoriali e tutte le sostanze ottenute per estrazione o per sintesi chimica che provocano la stessa tipologia di effetti a carico del sistema nervoso centrale“.
Dovranno, pertanto, ordinariamente provarsi le condizioni e i presupposti per la sussistenza del reato, compreso il superamento della soglia drogante e, ovviamente, la consapevolezza del consumatore: un reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73 può configurarsi solo se si dimostra con certezza, che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, è di entità tale da potere concretamente produrre un effetto drogante (Cass., Sez. 6, n. 8393 del 22/01/2013; Sez. 6, n. 6928 del 13/12/2011; Sez. 4, n. 6207 del 19/11/2008).
Invece, è nel trattare della tabella 2 che il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14, comma 1, lett. b) si occupa della cannabis e dei prodotti da essi ottenuti; i quali dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36, art. 1, comma 30, convertito con mod. nella L. 16 maggio 2014, n. 79, sono indicati come “foglie e infiorescenze“, “olio“, “resina“.
Nel caso in esame, l’ordinanza impugnata riguarda un sequestro preventivo ex art. 321 cod. proc. pen. relativo, appunto, a infiorescenze di cannabis che sono risultate contenere THC compreso (secondo quanto indicato nella richiesta di sequestro preventivo) fra lo 0,52% e lo 0,65%, pertanto con un valore medio inferiore allo 0,6%.
Deve osservarsi che, se non è contestato che le infiorescenze sequestrate provengano da coltivazioni lecite ex L. n. 242 del 2016, l’autorità procedente deve dare conto delle ragioni per le quali eventualmente le modalità di prelevamento, conservazione e analisi dei campioni, ai fini della determinazione quantitativa del contenuto di tetraidrocannabinolo (THC) si discostano da quelle previste dalla L. n. 242 del 2016, art. 4, comma 3, “stabilite ai sensi della vigente normativa dell’Unione Europea e nazionale“.
Comunque, anche in questo caso – cioè se non è contestato che le infiorescenze sequestrate provengano da coltivazioni lecite ex L. n. 242 del 2016 per le ragioni suesposte, come per l’agricoltore, così anche per il commerciante nel caso di sequestri (e distruzioni) dei prodotti a causa del superamento del limite dello 0,6% è esclusa la responsabilità penale e, quindi, è ammissibile soltanto il sequestro in via amministrativa (L. n. 242 del 2016, art. 4, comma 7). A una diversa conclusione potrà giungersi soltanto se risulti che il commerciante sia stato consapevole (a fortiori, se artefice) di trattamenti del prodotto successivi all’acquisto dal coltivatore e volti a incrementarne il contenuto di THC.
Corte di Cassazione, Sez. VI, sentenza 31 gennaio 2019, n. 4920