Nel nostro ordinamento l’attribuzione del cognome è ordinariamente conseguente al possesso di uno status familiae, per cui quando l’art. 6 del C.c. dispone: “Ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito” non rinvia a norme che disciplinano direttamente l’acquisto del nome, bensì a norme che regolano in genere il riconoscimento di uno status (e cioè prendono in esame tutte le possibili vicende in tema di filiazione legittima, naturale, legittimazione e adozione) e quindi, indirettamente, l’assunzione del nome.
Ciò posto, è certamente vero che tra i diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana l’art. 2 della Costituzione riconosce e garantisce anche il diritto all’identità personale.
Si tratta del diritto ad essere sé stesso, inteso come rispetto dell’immagine di partecipe alla vita associata, con le acquisizioni di idee ed esperienze, con le convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali che differenziano, ed al tempo stesso qualificano, l’individuo.
L’identità personale costituisce quindi un bene per sé medesima, indipendentemente dalla condizione personale e sociale, dai pregi e dai difetti del soggetto, di guisa che a ciascuno è riconosciuto il diritto a che la sua individualità sia preservata.
Tra i tanti profili, il primo e più immediato elemento che caratterizza l’identità personale è evidentemente il nome, singolarmente enunciato come bene oggetto di autonomo diritto nel successivo art. 22 della Costituzione, che assume la caratteristica del segno distintivo ed identificativo della persona nella sua vita di relazione.
Ora, posto che nella disciplina giuridica del nome confluiscono esigenze di natura sia pubblica che privata, l’interesse pubblico a garantire la fede del registro degli atti dello stato civile è soddisfatto allorché sia rettificato l’atto riconosciuto non veritiero.
Una volta certi i rapporti di famiglia della persona, non assume rilevanza ai fini dell’interesse pubblico che questi mantenga il nome precedentemente portato al pari di qualsiasi altro omonimo.
Del resto, l’eventualità che il cognome possa essere diverso dalla paternità accertata non è un’ipotesi estranea all’ordinamento: essa è già prevista al secondo comma dell’art. 262 C.c., il quale consente al figlio tardivamente riconosciuto dal padre di scegliere se conservare o meno il cognome originario, nonostante il riconoscimento sia rispondente a verità; con ciò tutelando proprio il diritto del soggetto all’identità personale fino a quel momento posseduta.
In breve, accanto alla tradizionale funzione del cognome quale segno identificativo della discendenza familiare, con le tutele conseguenti a tale funzione, occorre riconoscere che il cognome stesso in alcune ipotesi già gode di una distinta tutela anche nella sua funzione di strumento identificativo della persona, e che, in quanto tale, costituisce parte essenziale ed irrinunciabile della personalità.
Da qui l’esigenza di protezione dell’interesse alla conservazione del cognome, attribuito con atto formalmente legittimo, in presenza di una situazione nella quale con quel cognome la persona sia ormai individuata e conosciuta nell’ambiente ove vive.
La stessa tutela (art. 9 C.c.) dello pseudonimo non ha altra ragione, ed anche la norma prima citata (art. 262, C.c.) ha alla base l’esplicito riconoscimento del pregiudizio che la dismissione del cognome, cui il soggetto sia costretto, comporterebbe.
Sotto questo aspetto anche la disciplina dello scioglimento del matrimonio per divorzio prende in considerazione, tra gli altri, tale interesse in quanto non preclude la conservazione alla donna del cognome del marito (pur se la regola è la perdita del cognome aggiunto), potendo il Tribunale autorizzare la donna che ne faccia richiesta a mantenerlo, aggiunto al proprio, quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela.
CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA 24 GENNAIO-3 FEBBRAIO 1994 N. 13