La “cessazione della materia del contendere” è una elaborazione giurisprudenziale che chiude il processo civile in quanto priva di interesse le parti con riguardo alla decisione nel merito della controversia. La stessa ricomprende diverse fattispecie come la rinuncia all’azione o alla inattività delle parti.
Nel rito contenzioso ordinario, la cessazione della materia del contendere costituisce una ipotesi di estinzione del processo creata dalla prassi giurisprudenziale ed applicata in ogni fase e grado del giudizio da pronunciare con sentenza, d’ufficio o su istanza di parte, ogniqualvolta non si può fare luogo alla definizione del giudizio per rinuncia agli atti o per rinuncia alla pretesa sostanziale, per il venire meno dell’interesse delle parti alla naturale definizione del giudizio, che determina il venire meno delle pronunce emesse nei precedenti gradi e non passate in giudicato e che proprio perché accerta solo il venire meno dell’interesse non ha alcuna idoneità ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, ma solo sul venire meno dell’interesse e con l’ulteriore conseguenza che il giudicato si forma solo su quest’ultima circostanza, ove la relativa pronuncia non sia impugnata con i mezzi propri del grado in cui è emessa.
La cessazione della materia del contendere è situazione ignorata dal codice di rito ma introdotta nel nostro ordinamento attraverso la giurisprudenza fin da Cass. 19 gennaio 1954 n. 92 e poi nel prosieguo adoperata come formula terminativa di una serie di giudizi ai quali non si attagliavano le figure della rinuncia agli atti o all’azione sicché è da dire che la stessa è divenuta diritto vivente, mentre è da ritenere senza successo il tentativo operato da Cass. 15 giugno 1996 n. 5516 di espungerla dal sistema per non essere un istituto dell’ordinamento processuale civile, non essendo prevista né esplicitamente né implicitamente da alcuna disposizione codicizia o da una qualche legge speciale, sulla base anche del rilievo che il codice di rito prevede altre formule terminative del processo che nel loro complesso assolvono a funzioni tra le quali può ben ricomprendersi il soddisfacimento degli interessi che la prassi giudiziaria sottende alla richiesta ed all’adozione di un provvedimento dichiarativo della cessazione della materia del contendere.
La cessazione della materia del contendere è entrata, per la prima volta, nella legislazione, con la legge 6 dicembre 1971 n. 1034, che l’ha prevista nel processo amministrativo quando “entro il termine per la fissazione dell’udienza, l’amministrazione annulla o riforma l’atto impugnato in modo conforme alla istanza del ricorrente” (art. 23, comma 7) e che comunque non è esaustiva di tutte le ipotesi di cessazione della materia del contendere, tanto vero che la giurisprudenza amministrativa è assolutamente costante nel ritenere che la norma non ha fatto venire meno l’istituto dell’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse ad agire, a cui è fatta da sempre conseguire la cessazione della materia del contendere, stante la persistente sua autonomia concettuale nel giudizio amministrativo (ex plurimis: Cons. St., sez. IV, 30 aprile 1998 n. 709; Cons. St., sez. IV, 9 febbraio 1982 n. 64; T.A.R. Calabria sez. Reggio Calabria, 20 novembre 1996 n. 1031; T.A.R. Calabria sez. Reggio Calabria, 1° agosto 1996 n. 614).
Il d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, in tema di nuovo contenzioso tributario ha, poi, espressamente previsto la cessazione della materia del contendere quale causa di estinzione del processo affiancandola ai casi di definizione delle pendenze tributarie previste dalla legge (art. 46, comma 1) e contrapponendola alle ipotesi di estinzione per rinuncia al ricorso (art. 44) e a quella per inattività delle parti (art. 45). La previsione della cessazione della materia del contendere nei testi legislativi in precedenza citati non reca alcun contributo alla soluzione del contrasto, sia per l’autonomia del procedimento amministrativo rispetto a quello ordinario disciplinato dal codice di rito, sia perché, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, sono le disposizioni del codice di procedura civile a dovere integrare le previsioni della legge speciale e non viceversa.
In materia di contenzioso ordinario la cessazione della materia del contendere è stata ravvisata, come esattamente rilevato da Cass. 18 maggio 2000 n. 368/SU, in una molteplicità di situazioni prescindendo da quelle, in precedenza ricordate, in cui l’espressione è adoperata per indicare le conseguenze derivanti dalla rinuncia all’azione quali: l’integrale adempimento o, più in generale, il completo soddisfacimento della pretesa dell’attore (Cass. 29 aprile 1974 n. 1218; Cass. 9 luglio 1997 n. 6226); il riconoscimento dell’avversa pretesa (Cass. 29 aprile 1974 n. 1216; Cass. 9 maggio 1975 n. 1809; Cass. 12 dicembre 1975 n. 4151); la successione di leggi (Cass. 8 luglio 1960 n. 1813); lo scioglimento consensuale del contratto di cui è stata chiesta la risoluzione per inadempimento (Cass. 14 novembre 1977 n. 4923); la morte di uno dei coniugi nel processo di separazione personale (Cass. 12 maggio 1981 n. 1442; Cass. 3 febbraio 1990 n. 740; Cass. 4 aprile 1997 n. 2944) o di cessazione degli effetti civili del matrimonio (Cass. 28 gennaio 1980 n. 661; Cass. 18 agosto 1992 n. 9592; Cass. 19 giugno 1996 n. 5664) oppure dell’interdicendo nel processo di interdizione (Cass. 22 febbraio 1989 n. 1001), ovvero del soggetto ingiunto in materia di sanzione amministrativa (Cass. 21 febbraio 1991 n. 1873; Cass. 29 maggio 1993 n. 6048; Cass, 5 aprile 1996 n. 3196); la morte del magistrato incolpato in sede di procedimento disciplinare (Cass. s.u. 5 marzo 1993 n. 2674) o il suo collocamento a riposo (Cass. s.u. 26 maggio 1995 n. 5805); la transazione stipulata fra le parti dopo l’inizio del processo (Cass. 27 febbraio 1998 n. 2197; Cass. 18 maggio 1998 n. 4963; Cass. 6 giugno 1998 n. 5594).
Come risulta dalla precedente esposizione, le varie ipotesi individuate, tutte concluse con la pronuncia di cessazione della materia del contendere, non sono fra loro comparabili se non per un unico elemento costituito dal fatto che è venuto meno l’interesse delle parti ad una decisione sulla domanda giudiziale come proposta o come venuta ad evolversi nel corso del giudizio, sulla base di attività, dalle parti stesse poste in essere nelle varie fasi processuali, per le più diverse ragioni, o di eventi incidenti sulle parti, in conseguenza della natura personalissima e intrasmissibile della posizione soggettiva dedotta, in ordine ai quali anche se enunciati o risultanti dagli atti non viene chiesto al giudice alcun accertamento, diverso da quello del venire meno dell’interesse alla pronuncia.
È, inoltre, da ricordare che, nella prassi giudiziaria, a tale pronuncia si ricorre: quando, per difetto dei requisiti, non può procedersi alla declaratoria di estinzione del giudizio per rinuncia agli atti, pur emergendo dagli atti il venire meno dell’interesse della parte ad una pronuncia di merito; in sede di giudizio di cassazione (Cass. 14 febbraio 1991 n. 1538; Cass. 11 settembre 1996 n. 8219), anche d’ufficio, “quando sia stata ritualmente acquisita al processo, ovvero risulti concordemente ammessa dalle parti dalla quale emerga l’avvenuta cessazione di ogni contrasto fra le stesse” (Cass. 1° dicembre 1992 n. 12826; Cass. 7 maggio 1993 n. 5286; Cass. 16 settembre 1995 n. 9781; Cass. 15 maggio 1998 n. 4919).
Queste due situazioni, pacifiche nella giurisprudenza di legittimità, e che concorrono a determinare i contorni dell’istituto, sono sufficienti ad escludere che dalla pronuncia di cessazione della materia del contendere possa dedursi il formarsi di un giudicato sostanziale.
Con riferimento alla prima è da osservare che è intimamente contraddittorio fare derivare da una situazione di difetto di interesse che non può sfociare in una decisione di estinzione del giudizio per insussistenza delle condizioni per una pronuncia di rinuncia agli atti, una pronuncia di merito quale è quella di rinuncia al giudizio, che ha un contenuto più ampio della prima e alla quale non può giungersi in difetto di una espressa volontà della parte.
Con riferimento alla seconda è da ricordare che autorevole dottrina ha sostenuto che, nella maggior parte dei casi, i fatti considerati fonte di cessazione della materia del contendere non determinano una carenza sopravvenuta di interesse, ma imporrebbero una pronuncia di rigetto, di cui quella di cessazione della materia del contendere in sostanza fa le veci e, come tale, va valutata sotto il profilo della formazione del giudicato e ciò anche in ipotesi di transazione fra le parti che comporta il rigetto della domanda per infondatezza non originaria, ma sopravvenuta, della domanda.
I vari Autori, che sostengono questa tesi, si trovano però in difficoltà quando si tratta di giustificare la rilevabilità della cessazione della materia del contendere in cassazione. Infatti: a) taluno sostiene che la stessa non può essere presa in considerazione in sede di legittimità; b) altro ritiene che, in sede di legittimità, il ricorso alla formula della cessazione della materia del contendere configura una ipotesi di improseguibilità, sulla base di una dilatazione della formula di cui all’art. 382, ultimo comma, c.p.c., anche se poi “all’individuazione di una vera e propria cassazione senza rinvio indirizza inequivocabilmente la valutazione degli effetti“; c) altro ancora estende la pronuncia di merito, sul rapporto fra le parti, anche alla sentenza con cui la cessazione della materia del contendere è dichiarata in sede di giudizio di legittimità, sostenendo che si è in presenza di una giurisprudenza pretoria che, ammettendo la produzione di documenti diretti a dimostrare il fatto della cessazione della materia del contendere, ha in sostanza configurato una peculiare ipotesi di cassazione sostitutiva di merito.
Orbene: la tesi sub a), seppure logicamente la più convincente ove si accetti la premessa da cui parte e cioè che la declaratoria di cessazione della materia del contendere costituisce vera e propria pronuncia di merito si scontra con il diritto vivente al quale si è fatto cenno in precedenza e che ammette la relativa declaratoria anche in sede di legittimità, con l’effetto che la ineccepibilità delle conseguenze ricavate non può non indurre a negare validità alla accennata premessa iniziale; le altre tesi nel tentare di giustificare la giurisprudenza circa l’operatività della cessazione della materia del contendere in cassazione o non spiegano perché tale pronuncia dovrebbe avere natura di pronuncia di merito nei relativi giudizi e natura di pronuncia processuale in sede di legittimità (tesi sub b) o non avvertono che presupposto necessario e indefettibile per una pronuncia nel merito in cassazione è che non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto (art. 384 c.p.c.) (tesi sub c), laddove invece tali accertamenti sarebbero necessari proprio per potere attribuire alla cessazione della materia del contendere contenuto di pronuncia di merito.
È bensì vero che per la pronuncia di cessazione della materia del contendere, in cassazione, è necessaria la produzione di documenti atti a provarla, ma tale produzione è consentita, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., per la declaratoria di inammissibilità (sopravvenuta) del ricorso e cioè per una pronuncia di mero rito. A ciò poi bisogna aggiungere che conseguenza fondamentale, fatta derivare dalla pronuncia di cessazione della materia del contendere, è il venire meno delle sentenze emesse nei precedenti gradi di giudizio, laddove, invece, la rinuncia agli atti in appello determina il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado (Cass. 19 maggio 1995 n. 5556). La relativa pronuncia come è stato esattamente rilevato dalla richiamata Cass. s.u. 18 maggio 2000 n. 368/SU non contiene alcuna statuizione relativa alla pronuncia impugnata, dal momento che, “nell’ipotesi di accordo transattivo, il nuovo assetto pattizio voluto dalle parti del rapporto controverso, si sostituisce alla regolamentazione datane dalla sentenza impugnata, che resta travolta e caducata e per ciò stesso inidonea a passare in giudicato; ed un fenomeno analogo avviene per tutti gli altri fatti produttivi della cessazione della materia del contendere perché, facendo venire meno il poteredovere del giudice di pronunciare sull’originario thema decidendum, escludono che si formi il giudicato su una decisione non più richiesta né necessaria (ex plurimis: Cass. 14 maggio 1981 n. 3178; Cass. 25 ottobre 1990 n. 10361; Cass. 18 agosto 1992 n. 9592; Cass. 19 giugno 1992 n. 5664)“.
Da quanto precede deriva la non assimilabilità della cessazione della materia del contendere sia alla rinuncia agli atti del giudizio sia alla rinuncia all’azione. Sebbene alcune pronunce, anche delle S.U., hanno qualificato come di merito le sentenze di cessazione della materia del contendere, ma si tratta di affermazioni non suffragate da idonee argomentazioni. Ed infatti: Cass. S.U. 25 luglio 1994 n. 6938 (richiamata da Cass. 11 marzo 1997 n. 2161) al fine di ritenere preclusa, con il passaggio in giudicato del relativo capo della sentenza di merito, il successivo rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione afferma che la pronuncia di cessazione della materia del contendere non contempla l’attribuzione di un bene della vita e, nondimeno, contiene una statuizione, che necessariamente suppone la giurisdizione; Cass. 28 ottobre 1993 n. 10728, in presenza di una pronuncia di cessazione della materia del contendere, emessa in sede di opposizione all’esecuzione, ha concluso che si era in presenza di una pronuncia sul merito dell’azione esecutiva, impugnabile con l’appello e non con il ricorso per cassazione; Cass. 21 agosto 1998 n. 8285, che si richiama alla sentenza precedente, ha ritenuto che il provvedimento del tribunale di dichiarazione della cessazione della materia del contendere, emesso nel corso di un giudizio di separazione dei coniugi, risolvendosi in una pronuncia sul merito dell’azione proposta, può essere impugnata solo con appello e non con ricorso per cassazione. (Cass. civ., sez. U., 28 settembre 2000 n. 1048)