Il Bondage rientra tra le diverse pratiche sessuali, c.d. violente ed estreme, e, in alcuni casi, può assumere i connotati dell’illiceità proprio per l’assenza delle dovute cautele nell’assunzione di un consenso libero ed informato, tanto scaturire nell’ambito della violenza sessuale.
Con la sentenza (Cass., n. 11631/2021) il consenso alla prestazione sessuale e alla prestazione di Bondage deve permanere per tutta la durata della pratica “non convenzionale“. La giurisprudenza di legittimità con la sentenza suindicata (Cass., n. 11631/2021), ha confermato la motivazione della Corte territoriale rilevando la forte disparità tra le parti in gioco, dove la donna ha ripetuto in più occasioni che aveva acconsentito ai rapporti sessuali ma non alle modalità violente; non sono emersi elementi fondanti il consenso perché lo stesso corrispettivo pattuito era inteso per una prestazione sessuale ordinaria; i due uomini avevano approfittato delle condizioni di fragilità e disponibilità sessuale della donna; nel corso delle varie sessioni questa aveva urlato per il dolore, ma i due non si erano fermati.
La sentenza citata è in linea con la giurisprudenza di legittimità. Si veda in particolare, Cass., Sez. 3, n. 16899 del 27/11/2014, che ha osservato che il rapporto sadomasochista nelle relazioni sessuali non può, quindi, in sé definirsi illecito e fonte di responsabilità penale, purché sia caratterizzato da un reciproco scambio di consensi informati, liberi e revocabili e a condizione che i soggetti interessati non si trovino in situazioni patologiche, la cui presenza finirebbe con il neutralizzare il consenso, rendendolo privo di effetti giuridici per carenza della piena capacità di intendere e volere.
Non è un caso che nella disciplina di queste pratiche le parti seguano determinate regole che garantiscano la libera condivisione degli scopi e delle modalità per raggiungerli e si accordino preventivamente anche su una specifica parola di sicurezza (cosiddetta safeguard) per consentire l’immediata interruzione della condotta, alla semplice richiesta di una delle parti coinvolte.
Il fenomeno, sotto il profilo della sua rilevanza penale, è noto anche nella giurisprudenza C.E.D.U. che, nella sentenza 17 febbraio 2005 – causa K.A. e A.D. contro Regno del Belgio, ha affermato significativamente che, se può essere riconosciuto ad ognuno il diritto di esercitare le pratiche sessuali nel modo più libero possibile, “il rispetto della volontà della vittima di queste pratiche costituisce un limite a tale libertà“. Non esiste un diritto soggettivo al sadismo. Piuttosto, ogni pratica di estrema violenza non è scriminata per via dell’esercizio di un diritto ma, nei limiti della sua disponibilità, solo dal consenso informato e consapevole della vittima, dal momento che siffatta attività non può contrastare con l’art. 5 C.c..
La giurisprudenza di legittimità ha significativamente sviluppato il suo ragionamento a partire dalla tematica del consenso dell’avente diritto e dei limiti alla disponibilità del proprio corpo, ampliando gli spunti contenuti nelle sentenze n. 5640 del 11/03/1994 e n. 9326 del 16/06/1998.
Come precisato nella sentenza della Corte di Cassazione Sez. 3, n. 37916 del 27/06/2012, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il consenso dell’avente diritto per avere effetto scriminante deve essere in correlazione cronologica con il compimento del fatto tipizzato come illecito. In relazione a certe pratiche estreme, per escludere l’antigiuridicità della condotta lesiva, non basta il consenso del partner, espresso nel momento iniziale della condotta. La scriminante non può essere invocata se l’avente diritto manifesta, esplicitamente o mediante comportamenti univoci, di non essere più consenziente al protrarsi dell’azione alla quale aveva inizialmente aderito, per un ripensamento od una non condivisione sulle modalità di consumazione dell’amplesso (Cass., Sez. 3, n. 25727 del 24/2/2004; Cass., Sez. 3, n. 4532 del 11/12/2007).
Nella sentenza Cass., Sez. 5, n. 19215 del 13/11/2014, relativa sempre a pratiche sadomasochiste, la Corte di legittimità ha affermato che non è sufficiente ad escludere l’antigiuridicità del fatto il consenso ad attività lesive dell’integrità personale – sempre che queste non si risolvano in una menomazione permanente che, incidendo negativamente sul valore sociale della persona umana, elide la rilevanza del consenso prestato – espresso nel momento iniziale della condotta, essendo, invece, necessario che il consenso stesso sia presente per l’intero sviluppo di questa.
Il principio di diritto è stato ribadito più di recente dalla sentenza Cass., Sez. 3, n. 3158 del 04/10/2019, che ha evidenziato la necessità della permanenza del consenso per tutta la durata della pratica “non convenzionale“. (Cass., n. 11631/2021)