Il c.d. body shaming (o derisione del corpo) si realizza nell’ambito della realtà virtuale dei Social network e consiste nell’attaccare un utente della rete in merito al suo aspetto fisico ed estetico, attraverso commenti denigratori, fino ad arrivare ad offese, insulti e minacce, con conseguenti risvolti negativi nella vita sociale della vittima, arrivando ad integrare forme complesse di bullismo e di cyberbullismo.
Il body shaming può colpire indistintamente uomini e donne, di qualunque età e classe sociale.
Tale condotta, affermatasi negli ultimi anni grazie anche allo sviluppo di piattaforme digitali (in particolare Facebook e Instagram), può avere rilevanti conseguenze sotto il profilo giuridico integrando, a seconda dei casi, diverse fattispecie penali. Tra i reati ascrivibili nella sfera del body shaming si parla in primis di diffamazione aggravata (ex art. 595 comma 3 C.p.), ma anche di minacce (ex art. 612 C.p.), di stalking (ex art.612 bis C.p.), e in alcuni casi, caratterizzati da maggiore gravità, anche di istigazione o aiuto al suicidio (ex art. 580 C.p.).
La potenzialità lesiva del body shaming e di conseguenza delle condotte criminose suindicate deriva soprattutto dal mezzo utilizzato, potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone (Cass., Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015 secondo cui la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma C.p.). Invero secondo il principio di diritto, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, con riferimento al reato di diffamazione, l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando, e aggravando, in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica, ordinariamente attraverso le bacheche dei social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica, che è quella di incentivare la frequentazione della bacheca da parte degli utenti, allargandone il numero a uno spettro di persone sempre più esteso, attratte dal relativo effetto socializzante. (Cass., Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015; ripreso da Cass., Sez. 1, n. 50/2017).
La circostanza che l’accesso al social network richieda all’utente una procedura di registrazione, peraltro gratuita, assai agevole e alla portata sostanzialmente di chiunque, non esclude la natura di “altro mezzo di pubblicità” richiesta dalla norma penale per l’integrazione dell’aggravante, che discende dalla potenzialità diffusiva dello strumento di comunicazione telematica utilizzato per veicolare il messaggio diffamatorio, e non dall’indiscriminata libertà di accesso al contenitore della notizia (come si verifica nel caso della stampa, che integra un’autonoma ipotesi di diffamazione aggravata), in puntuale conformità all’elaborazione giurisprudenziale che ha ritenuto la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 595 terzo comma C.p. nella diffusione della comunicazione diffamatoria col mezzo del fax (Cass., Sez. 5 n. 6081 del 9/12/2015) e della posta elettronica indirizzata a una pluralità di destinatari (Cass., Sez. 5 n. 29221 del 6/04/2011).