La c.d. critica giudiziaria riguarda opinioni espresse in relazione all’esercizio del potere giudiziario.
Il diritto di critica, rappresentando l’esternazione di un’opinione relativamente a una condotta ovvero a un’affermazione altrui, si inserisce nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21 della Carta costituzionale e dall’art. 10 della Convenzione EDU. Proprio in ragione della sua natura di diritto di libertà, esso può essere evocato quale scriminate, ai sensi dell’art. 51 c.p., rispetto al reato di diffamazione, purchè esso venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della continenza espressiva, nonchè dell’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, secondo quanto già posto in luce in sede rescindente.
Allorquando la critica abbia a oggetto l’esercizio di un Potere statale, l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia è da ritenersi sempre sussistente, in quanto la libertà di manifestazione del pensiero in ordine a temi di interesse generale è da considerarsi un vero e proprio presupposto delle società democratiche, necessario alla possibilità di svolgimento del dibattito pubblico. E ciò, in particolare, nell’ambito della c.d. critica giudiziaria, in cui l’esternazione del pensiero critico ha ad oggetto quel particolare potere pubblico, rappresentato dall’amministrazione della giustizia. Quest’ultima forma di critica, infatti, molto diffusa al giorno d’oggi, è funzionale, nell’ambito delle società moderne, a garantire il controllo sul corretto operato della magistratura da parte della comunità, e ciò, soprattutto, con l’ausilio dei giornali, più volte definiti dalla giurisprudenza della Corte EDU come i “cani da guardia” (watch-dogs) della democrazia e delle istituzioni, anche giudiziarie (ex multis Kobenter e Standard c. Austria, caso n. 60899/00). Proprio per tale ragione, come già evidenziato nella sentenza rescindente, il diritto di critica giudiziaria ha una estensione necessariamente ampia, posto che in democrazia, a maggiori poteri (quali sono quelli riconosciuti al magistrato) corrispondono maggiori responsabilità e l’assoggettamento al controllo da parte dei cittadini, esercitabile anche e proprio attraverso il diritto di critica (Cass., Sez. 5, n. 11662 del 6/2/2007).
Per quanto, poi, riguarda il requisito della veridicità dei fatti oggetto di critica, giova premettere che quest’ultima quale espressione di un’opinione meramente soggettiva, non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (cfr. ex multis Cass., Sez. 5, n. 25518 del 26/9/2016; Sez. 5, n. 49570 del 23/9/2014; Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010). Ciò in quanto il giudizio critico è necessariamente influenzato, e non potrebbe essere altrimenti, dal filtro personale con il quale viene percepito il fatto posto a suo fondamento. Ed è proprio in relazione al dato fattuale dal quale promana la critica, che deve essere valutato il predetto limite, atteso che la “veridicità” è una qualificazione che può essere riferita esclusivamente a un fatto, non potendo, invero, essere attribuita al giudizio critico stesso, dal momento che esso si traduce nell’espressione di un pensiero necessariamente soggettivo. Diversamente opinando, si rischierebbe di sindacare la legittimità stessa del contenuto del pensiero, in palese contrasto con le garanzie costituzionali.
Dunque, proprio perchè la critica si estrinseca nella manifestazione di giudizi e apprezzamenti, piuttosto che nell’esposizione di fatti oggettivi, il limite della verità è quello che resta maggiormente compresso, sottraendosi alla verifica circa l’assoluta obiettività delle circostanze segnalate. E ciò in quanto la facoltà di critica è, per sua natura, parziale, ideologicamente orientata e tesa ad evidenziare proprio quegli aspetti o quelle concezioni del soggetto criticato che si reputano deplorevoli e che si intende stigmatizzare e censurare, fermi sempre i confini di liceità prima indicati (Cass., Sez. 5, n. 19334 del 5/3/2004).
Corte di Cassazione n. 8801/2019